Dopo l’esperienza tragicamente eloquente della pandemia si è persa una preziosa occasione per ridare slancio alla sanità italiana e mettere ordine nella sua organizzazione.
Il governo può continuare a ripetere finché vuole che con l’ultima legge di bilancio sono stati stanziati 3 miliardi in più per il 2023 e 4 miliardi in più per il 2025, arrivando alle cifre più alte in assoluto.
È numericamente vero, peccato che negli ultimi anni tutti i valori economico-finanziari siano gonfiati dall’inflazione e in termini reali l’andamento sia ben diverso.
Secondo l’Ocse, l’organizzazione dei Paesi più industrializzati, “le attuali proiezioni di bilancio suggeriscono che, dopo anni di aumenti eccezionali della spesa nel 2020 e nel 2021, si è registrato un aumento nominale più moderato della spesa pubblica per la sanità nel 2023” e, considerando le stime più recenti sull’inflazione, “ciò si tradurrà molto probabilmente in una diminuzione della spesa pubblica in termini reali nei prossimi anni”, con la percentuale di Pil destinata alla sanità che “sarà inferiore al livello pre-pandemia dal 2024 in poi”.
Il confronto internazionale dice molto: a parità di potere d’acquisto, l’esborso pro-capite italiano per la sanità è grosso modo pari a un terzo di quello francese e alla metà di quello tedesco ed è comunque è inferiore a quello medio dei Paesi sviluppati.
Il problema che è diventato il simbolo di questa situazione è quello delle abnormi liste d’attesa. Certamente ha inciso il contraccolpo che è scattato dopo il sostanziale blocco della fase Covid. Ma questo non basta a spiegare un fenomeno che manifesta carenze di tipo strutturale. Il governo, per ora, ha predisposto un piano straordinario da 600 milioni l’anno.
Se sarà confermato che i fondi verranno assegnati direttamente alle singole Asl sulla base delle concrete necessità, vorrà dire che anche agli occhi di Palazzo Chigi le Regioni – che hanno una competenza preponderante in materia sanitaria – sono parte del problema e non della sua soluzione. Regioni che a loro volta, e non a torto in questo caso, hanno minacciato di rivolgersi alla Corte costituzionale contro il taglio di 1,2 miliardi previsti nel Pnrr per le opere di sicurezza sismica delle strutture ospedaliere. Il problema non sono soltanto i soldi che mancano, ma anche la confusione di ruoli figlia dell’incompiuta riforma costituzionale del 2001.
Impietosa e inquietante la diagnosi formulata dalla Corte dei conti nella relazione all’apertura dell’anno giudiziario.
“Non si può sottacere – scrivono i magistrati contabili e vale la pena riprendere tutto il passaggio – che la grave crisi di sostenibilità del sistema sanitario nazionale non garantisce più alla popolazione un’effettiva equità di accesso alle prestazioni sanitarie, con intuibili conseguenze sulla salute delle persone e pesante aumento della spesa privata; la tendenza, ormai già da diversi anni, appare lenta ma costante: da un Servizio sanitario nazionale incentrato sulla tutela del diritto costituzionalmente garantito, a tanti diversi sistemi sanitari regionali, sempre più basati sulle regole del libero mercato”.
Invertire questa tendenza dovrebbe essere una grande priorità nazionale per una politica capace di visione ampia e di sguardo lungo. Ma se continuano a dominare gli interessi particolari e la ricerca di un consenso immediato ed emotivo, allora sarà impossibile andare oltre qualche intervento circoscritto. E c’è persino il rischio che il quadro istituzionale complessivo possa peggiorare.
Stefano De Martis
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