Adatto ad un pubblico adulto

Mare fuori, la serie tv che vede protagonisti i ragazzi dell’Istituto di Pena Minorile di Napoli più amati dai giovani, è al centro dell’editoriale di Salvatore D’Angelo.
Foto di Renate Köppel da Pixabay

«Adatto ad un pubblico adulto» è il consiglio che appare prima di film e fiction in televisione e sulle piattaforme. Un altolà rispetto ai contenuti sensibili: linguaggio volgare, scene di violenza, sesso, con fumatori o dove si fa uso di alcol e droga.

Si presume che un adulto possa discernere la realtà dalla finzione. Un giovane avrà doti intellettuali che gli consentano di individuare i confini tra il lecito e l’illecito. I ragazzini, i bambini, probabilmente più inclini all’emulazione, non avrebbero le stesse capacità.

Un avvertimento sacrosanto, che sa di ipocrisia. Soprattutto se viene impresso su una serie che, per stessa ammissione dei produttori, è destinata ai giovanissimi. È il caso di “Mare fuori”, successo internazionale Rai che spopola da quattro stagioni con la quinta annunciata per febbraio 2025. «Mare fuori ha sfondato il muro dei giovani, degli adolescenti, anche dei ragazzini più piccoli. È un successo che riguarda tutte le fasce d’età», il commento della direttrice di Rai Fiction, Maria Pia Ammirati.

Come è possibile, se prima e durante la trasmissione c’è il bollino rosso? Il filtro dovrebbero farlo i genitori, che “forse” hanno il controllo del telecomando, ma non sempre di smartphone e tablet. Non si evoca la censura. Ci mancherebbe. Siamo un Paese, una comunità, intellettualmente emancipata e capace di autodeterminarsi. Ma nemmeno si può lanciare la pietra, nascondendo la mano.

Non si può pretendere che un ragazzino razionalizzi da solo le scene di uno stupro, di omicidi tra bambini, atti di bullismo brutale, lo strangolamento di un adulto o l’attentato dinamitardo ad una sala discografica pur di bruciare un contratto. Dove «si è perso il senso primario, importante, dell’intera operazione originale» ovvero «dare voce al presente, cacciando con un grido il male che veniva da lontano», scrive Beatrice Dondi su L’Espresso.

È la barbarie riscontrata in molte nostre città? Non lo escludo. Ma non è romanzandola che si sfugge al pericolo. L’effetto opposto è in agguato.

Un rischio emulazione o banalizzazione in cui si potrebbe incorrere quando l’istituto di pena è presentato alla stregua di rehab dove si canta e si gioca a pallone, con la cappella trasformata in set per fugaci effusioni d’amore.

Nel mondo reale non è così. Lo palesa l’ultimo rapporto di Antigone sui 17 Istituti di pena minorili italiani: dal 2012 non si registrano tanti reclusi under 18, la maggior parte dentro per furto o reati contro il patrimonio, in aumento i condannati per spaccio di droga e reati contro la persona. Dove il «processo di rieducazione del minorenne è fondamentale», rileva l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti, ma c’è un numero inadeguato di educatori. Altro che Beppe e Massimo.  

Nella non finzione il mare resta fuori a lungo e l’auspicata redenzione un per sempre che potrebbe non concretizzarsi mai. Stiamo vicino ai nostri ragazzi perché non basta l’avviso «adatto ad un pubblico adulto».

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