Azzerare il disimpegno morale: è l’obiettivo delle comunità che intendono dire no alla violenza. Girarsi dall’altra parte è una colpa altrettanto grave.
I fatti del Parco Verde di Caivano, realtà della provincia di Napoli ad un tiro di schioppo dalle nostre città, deve indignarci e non lasciarci indifferenti. Farci riflettere.
Contesti come quello non sono troppo differenti da alcuni nostri quartieri dove regnano degrado strutturale, ambientale, sociale e morale. Le cronache nostrane ci raccontano di continui episodi criminali e derive sociali. Fortunatamente ci risparmiamo atrocità come quelle napoletane o palermitane, o forse non ne siamo a conoscenza. Guardiamoci intorno senza indulgenza.
È vero che i giornali riportano violenze in tutto lo Stivale, ma è anche vero che il più delle volte sono figlie di abbandono, emarginazione e incuria. In criminologia c’è la teoria delle “finestre rotte”. È la capacità del disordine urbano e del vandalismo di generare criminalità aggiuntiva e comportamenti antisociali.
Caivano ne è l’esempio. La violenza su due bambine si è perpetrata nel Delphinia, un centro sportivo distrutto e vandalizzato. Valorizzare l’ambiente vuol dire valorizzare la vita.
La teoria introdotta da James Q. Wilson e George L. Kelling indica che mantenere e controllare questi rioni reprimendo dai piccoli reati agli atti vandalici, fino al contrasto della sosta selvaggia e il sollecito del corretto conferimento dei rifiuti, contribuisce a creare un clima di ordine e legalità e riduce il rischio di crimini più gravi. Miglioriamo le condizioni di vita nelle periferie. Si spera che i nostri amministratori locali ne siano consapevoli.
In questo humus di noncuranza matura l’omertà, che diventa una sorta di secondo branco. Il primo mette in pratica l’azione violenta, il secondo volta le spalle. «È anche questa una forma di violenza: gente che magari è lì intorno, conosce direttamente le persone, è a conoscenza dei fatti gravissimi che accadono. Questo ci fa riflettere su quanto ciò lasci le persone vittimizzate senza speranza. Chi non denuncia e fa sì che il reato si reiteri concorre al reato stesso», analizza Anna Maria Giannini, ordinario di Psicologia generale a La Sapienza.
Un fenomeno che non è solo figlio del timore per la propria incolumità, ma anche della non empatia, del non volere entrare in contatto con la sofferenza delle persone, rimanendo concentrati su sé stessi. Inutile ripetere il mantra «i giovani possono, i giovani devono, i giovani vogliono», se poi i grandi non danno l’esempio.
Ritroviamoci come comunità, facciamo attenzione all’altro, guardiamo negli occhi il collega, la vicina di casa, il compagno e la compagna di banco. Approfondiamo, chiediamo aiuto, denunciamo. Facciamolo anche conto terzi, perché tante volte la vittima non è consapevole di esserlo. Non restiamo a guardare.
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