Ingannati, rapiti strappati: l’infanzia negata

Nel mondo ci sono circa 700 milioni di bambini che quotidianamente vengono privati della loro infanzia e della loro adolescenza. Una fase della vita troppo breve che richiede azione e non può essere lasciata alle intenzioni dei preamboli e delle convenzioni.
Foto Pixabay.com/kristi611

Sono passati più di trent’ anni da quando i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza furono riconosciuti ed affermati in una convenzione internazionale. Fu nel novembre del 1989, infatti, che l’ONU, recependo precedenti dichiarazioni, affermò la piena tutela giuridica per i minori di 18 anni, riconoscendo loro la piena titolarità dei diritti civili, politici, sociali, economici e culturali, al pari degli adulti.

Successive convenzioni, poi, con protocolli aggiuntivi, fornirono sì le ragioni ma soprattutto specificarono adeguati e necessari modi e strumenti di intervento, anche per forme nuove di coercizione e di sfruttamento più o meno palesi.

Pur tuttavia, nel mondo ci sono ancora 150 milioni di bambini che quotidianamente vengono privati della loro infanzia e della loro adolescenza. Se ad essi, poi, si aggiungono quelli soggetti ad abusi e violenze, a malnutrizione e mancata istruzione, o, peggio ancora, quelli immigrati e poi i bambini soldati, documentati in almeno 18 Paesi, il numero cresce vertiginosamente, fino ad interessarne quasi 700 milioni.

Piccoli schiavi invisibili, per i quali l’infanzia o non è mai iniziata o è finita troppo presto, rubata, negata o minacciata, senza possibilità di sviluppo emotivo, fisico e sociale, privata nel gioco nei sogni e derubata del proprio futuro.

Quella dei bambini è una condizione senza possibilità di promozione in proprio di azioni efficaci di autodifesa: sono essi la componente più debole del sistema sociale, ed anche di fronte a tentativi di rispetto verso i minori, emergono sempre nuove forme di coercizione e di sfruttamento, più o meno palesi.

Per quanto l’infanzia sia sempre più al centro dell’attenzione pubblica, dei mezzi di comunicazione di massa, di giuristi e di sociologi, sostanzialmente rimane incompresa, se non anche esclusa da serie indagini e da adeguate soluzioni di piena ed effettiva parità. Significativi e numerosi sono gli effetti sociali sull’affettività del bambino.

Tra i più evidenti dei quali sono da registrare gli effetti da internet, dalla televisione e quelli relativi al tempo/spazio.

Il primo, con andamento a catena o a cascata sui minori, vede coinvolto almeno un genitore, con minimi scambi affettivi, che si riducono a volte soltanto ad un formale saluto. Se è giustificato il tempo dedicato dai genitori alle proprie incombenze, e negli ultimi tempi alla pratica del lavoro domiciliare, sempre più diffuso, poche o nessuna ragione giustifica l’assenza di relazioni e di interazione con i figli minori.

L’ effetto tv, invece, chiama in causa entrambi i genitori. Pur senza demonizzare i mezzi tecnologici, a partire dal piccolo schermo, questa non è certamente l’affidataria della socializzazione del bambino. Con la sua offerta generalista, la tv occupa ogni spazio dell’universo familiare ed infantile, divenendo rifugio e modello mentre orienta pesantemente i gusti ed i desideri dei suoi “piccoli” consumatori. La tv in primis è anche produttrice e divulgatrice dell’effetto spot, presentando i bambini come specchietto per le allodole e come veicoli di propaganda pubblicitaria, finanche a puntare loro addosso i riflettori per situazioni patologiche (vedi i dibattiti sulla pedofilia).

L’effetto spazio/tempo, infine, è la conseguenza di una serie di situazioni che incidono ripetutamente sull’esistenza dei bambini. La ghettizzazione in spazi e tempi decisi a priori, in ritmi prestabiliti e calendarizzati, privano il bambino della sua dovuta libertà, gli riducono fantasia, creatività, gioco, scoperta ed esplorazione.

Quanti spazi concreti ed attrezzati hanno a disposizione i nostri bambini nelle città e nei paesi? Perché la conoscenza della loro città deve limitarsi al percorso casa-scuola?

L’ orientamento di molti discorsi e di molti progetti sull’infanzia e sull’adolescenza riguarda solo l’adultità dei ragazzi attuali o invece soprattutto le loro problematiche presenti?

Appare evidente, perciò, che, mentre il bambino da 0 a 17 anni è inquadrato in un’unica categoria giuridica, non altrettanto viene mantenuta la medesima tassonomia in chiave sociologica ed affettiva, con la conseguente valorizzazione della intrinseca distinzione. 

Una fascia così decisiva della società abbisognerebbe di attenzioni che vanno ben oltre l’attuale ricerca sociologica e le attuali affermazioni di principio, con proposte immediatamente esecutive ed ordinamenti effettivamente praticati.

Il tempo dell’infanzia e dell’adolescenza è troppo breve rispetto alle lunghe intenzioni dei preamboli e delle convenzioni.

Anna Spera, Dipartimento di Scienze umane, Filosofiche e della Formazione
dell’Università degli Studi di Salerno

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