Parlare di famiglia del Mulino bianco come l’ha intesa la pubblicità è utopia. Proviamo a sganciarla dal marketing e scopriremo che ce ne sono tante. Siamo immersi in esse. Sono dentro la società. Nella normalità. Siamo noi.
Lo spot è finzione, noi viviamo nella realtà. Ed è qui che la famiglia del Mulino bianco diventa tale. Sa godere del sorriso del compagno o della compagna, delle reciproche conquiste e successi. Gode della gioia dei figli, se ci sono. Fa tesoro di nipotini e amici. Accudisce, porta pazienza e ringrazia per l’amore ricevuto dai genitori. È capace di non dimenticare tutto questo quando alla porta bussano difficoltà, dolori, incomprensioni, capricci e litigi. Una memoria che consente di rialzarsi dalla polvere, superare la rabbia, andare oltre le tensioni, per continuare a vivere e non sopravvivere.
La vera famiglia del Mulino bianco è questa: si fida e si affida, ammaccata e forte perché salda sulla roccia. Noi cristiani lo sappiamo bene.
È il richiamo ad uno dei passi evangelici più noti e più citati durante le celebrazioni del Sacramento del matrimonio. Vangelo non solo proclamato e forse ascoltato, ma vissuto.
Spegniamo la tv e i social, i cui messaggi rischiano di essere distopici. Accendiamo i riflettori sulle nostre case per ringraziare di essere quel mulino che, nonostante tutto e tutti, macina farina e spinto dall’acqua, frutto di sudore e fatica, supera, ama, vive e dona vita.
Mi sono piaciute due riflessioni degli ultimi giorni. Sulla scia della Sinner mania, due attenti osservatori hanno scritto di famiglia e genitorialità a partire dalle parole del super tennista Jannik: «Auguro ai bambini di avere genitori come i miei».
Riccardo Maccioni su Avvenire afferma: «Quindi esistono. La vittoria di Sinner all’Open d’Australia è anche loro. Anzi, forse, soprattutto loro. Genitori di chi, come il nostro campione, è stato libero di scegliere cosa volesse fare e non si è mai sentito costretto a vincere, quasi fosse un debito di riconoscenza».
Don Marco Pozza su Sulla strada di Emmaus ricorda, invece, la sua scelta vocazionale. A 10 anni comunicò alla famiglia di voler fare le scuole medie in seminario. «Tu sei felice nel fare questo?», chiese il padre. «Se tu sei felice, allora provaci», disse la madre. «Però, ricordati bene una cosa: se un giorno tu scoprirai che quella non è la tua strada, questa rimane casa tua. Noi siamo qui», aggiunse il papà.
La famiglia «per me (e Jannik) – scrive don Marco – è stata la porta d’accesso verso la libertà. Sono caduto. Ho sbagliato. Mi sono procurato ferite che sono diventate cicatrici. Il mio cuore è slabbrato. Lo rimarrà per sempre. Ma ne è valsa la pena. Averne di genitori così. Che ti lasciano libero di giocarti la vita da protagonista. A dieci anni».
Essere famiglia vale, sempre. Gioco-partita-incontro.
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