‘O ‘ntreccio di Carnevale. La tradizione secolare di Roccapiemonte

Ha origini dal 600, col teatro di strada, quando alle donne era proibita ogni esibizione pubblica. Protagonista l’intera frazione di San Potito di Roccapiemonte.
Un momento dell’esibizione – foto N. Gentile

Secoli di storia e di tradizione soggiacciono al Carnevale che da sempre rievoca, nell’immaginario collettivo, momenti di svago, divertimento, perfino cambio di identità.

Una specie di liberazione dalla routine in un sogno effimero. È il momento, sociale ed individuale, in cui ciascuno vuol essere altro dal solito, incarnando aspirazioni sopite ma giammai spente. E le tradizioni sono davvero tante.

Ci soffermiamo su una del nostro territorio nocerino sarnese, molto particolare e caratteristica. Protagonista l’intera frazione di San Potito di Roccapiemonte.

‘O ‘ntreccio alla frazione San Potito, nei pressi della chiesa parrocchiale – foto N. Gentile

È il cosiddetto ‘O ‘ntreccio, cioè l’intreccio. Ha origini dal 600, col teatro di strada, quando alle donne era proibita ogni esibizione pubblica. Questo spiega perché tutti i componenti della manifestazione (ballerini ed attori-cantori) sono tutti maschi.

Il travestimento è un dato ulteriore di divertimento. La manifestazione è suddivisa in due sezioni. Partono i danzatori che agitando a ritmo rami di vite, intrecciati e adornati di fiori, compiono i loro balli.

Sono chiamati vituosi, appunto dai tralci di vite. Eseguono passi e figure diverse, come il ponte, il doppio ponte, la maruzza, il rint’ e fore, al ritmo di tamburo e tamburella.

Una volta disposti a cerchio, al centro si posizionano gli attori per la seconda parte, la cantata della Zeza. I personaggi sono quelli classici della commedia napoletana

Prima parte: La Zeza

Pulcinella con la figlia Vicenzella e la moglie Zeza, il notaio don Nicola pretendente ed il suo servitore, elaborano una storia di matrimonio contrastato dal padre, che alla fine si conclude felicemente.

Questo l’incipit:

E sentite, signuri miei

vedite a me che me succede,

‘nnanza a ‘sta brutta ‘mpesa de mugliera.

Io aier sera iette a casa

e nun ce truvai cannele,

‘o mpiso ‘e zi ron Nicola

sotto ‘o lietto steve…

E ssi pazze si tu lo crire,

ne pappavallo ‘ncaiola,

pecchè l’aggia tene chiusa chesta figiola.

Io ‘a voglio fa scialà

i’ cu ciente ‘nnammurat,

cu principe, barone e co signore abate

e pure che surdate.

Seconda parte: La vecchia vedova

I personaggi sono gli stessi con un contenuto diverso: un vero e proprio contratto di matrimonio con elenco specifico della dote che si dà alla sposa.

Parte della dote:

Cu nu liette e doje matarazz

e li lenzola lino a lino

ma di seta sono li lacci

e ‘nce staranno li cuscini:

manta e ‘mbuttita, nova e pulita

con toletta e cupertina.

cu dieci seggie e ‘na buffetta

nu mesale e ‘na sarvietta

nu zipeppo co lavorinal!

Il linguaggio, in napoletano antico, attraverso il tempo, ha subìto diverse trasformazioni e qualche espressione risulta incomprensibile.

Il divertimento è assicurato perché non mancano frizzi ed accenni anche volgari che rientrano nel costume popolare.

Non mancano accorgimenti particolari di contorno, come le comiche filastrocche dei vari mestieri ( ‘o menestaro, ‘o pittore,  ‘o pisciaiuolo, etc.) che attraverso un linguaggio, a volte scurrile, aumentano ilarità e suscitano calorosi applausi.

Il gruppo “Gli antichi Vituosi” ha un pedigree di tutto rispetto, avendo calcato le piazze di tutti i nostri centri meridionali, in provincia e fuori, toccando anche qualche festival folcloristico europeo.

Ci auguriamo che tanta ricchezza della nostra gente non vada perduta e ne resti solo uno sbiadito ricordo sui libri di storia.

È l’appello che facciamo alle nuove generazioni avendo noi fatta la nostra parte e con tanto onore. Dagli anni 70 al 2000.

Ma, come direbbe qualcuno, erano altri tempi!

Don Natalino Gentile

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