“Fin dall’inizio del cammino sinodale la pastorale della salute si è sentita immediatamente coinvolta perché è una pastorale che opera al di fuori dei contesti ecclesiali, all’interno delle strutture sanitarie a contatto con i curanti, i malati e la sofferenza. Abbiamo la possibilità di incrociare le vite di tante persone che spesso in condizioni normali non frequentano i luoghi ecclesiali: i non credenti, i delusi, tutti coloro che a diverso titolo hanno accantonato il tema di Dio”.
Esordisce così don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei che insieme ad altri tre Uffici ha dato vita ad un vero e proprio “cantiere sinodale”.
Don Angelelli, pastorale della salute come luogo privilegiato di ascolto?
Sì; il nostro servizio ci consente di essere antenne, recettori sul territorio di tante sensibilità e di contesti diversi; ci permette in particolare di ascoltare chi ci guarda da fuori, da lontano. Una rete relazionale che abbiamo messo a frutto per poter contribuire a questa grande fase di ascolto. Del resto, la pastorale della salute si nutre proprio di ascolto: quello che facciamo ogni giorno incontrando e accompagnando la sofferenza delle persone. E ci sentiamo dei privilegiati.
Perché?
Perché in questo atteggiamento di ascolto incrociamo le domande esistenziali di tanta gente. Il momento della malattia e della sofferenza fa emergere fondamentalmente la domanda di Dio.
Dall’ascolto all’avvio di un “cantiere sinodale” con altre realtà Cei. Di che si tratta?
Abbiamo voluto sviluppare il tema della vulnerabilità come elemento comune a quattro uffici e servizi nazionali della Cei – pastorale della salute, delle persone con disabilità, tutela dei minori, Caritas Italiana – avviando un cantiere sinodale tra vulnerabilità e corresponsabilità con l’obiettivo di sviluppare nuovi modelli di collaborazione, rafforzare sinergie e progettualità comuni, praticare un ascolto condiviso degli scenari di vulnerabilità nei diversi ambiti e territori, realizzare un censimento nazionale di questi ambiti condivisi e, infine, restituire in una sintesi quanto raccolto per progettare scenari di interventi pastorali futuri. Siamo tutti chiamati a trasformare lo sguardo per individuare le vulnerabilità dei nostri fratelli e sorelle; al tempo stesso è necessario, quando ci si ritrova vulnerabili, non avere timore di chiedere aiuto. Come ripete Papa Francesco, nessuno si salva da solo, ma in virtù dell’incontro con l’altro.
Come si è sviluppato finora il lavoro del cantiere?
Si è snodato lungo quattro direttrici: individuare, sostenere, proteggere, accompagnare. Siamo partiti dall’analisi degli scenari di vulnerabilità presenti sui territori di azione pastorale di ogni ufficio per condividerli e mettere in luce quelli di maggiore rischio, per poi analizzare gli strumenti già a disposizione e le azioni già in essere a sostegno degli scenari individuati. A seguire, l’esame degli interventi di prevenzione e cura più efficaci e il tipo di formazione specifica necessaria, nonché l’ipotesi di scenari condivisi con altri ambiti di azione pastorale. A conclusione del percorso si terrà un evento nazionale con i responsabili degli uffici e servizi diocesani per condividere quanto realizzato e porre le basi per linee condivise di progettazione pastorale in vista di uno strutturato cammino comune.
Comunione, partecipazione, missione le parole chiave del Sinodo. Come vi interpellano?
Tre atteggiamenti nei quali ci ritroviamo molto, propri della pastorale della salute. Comunione è per noi presenza empatica, apertura e accompagnamento dell’altro. Attraverso la relazione con il paziente, il personale sanitario e i familiari riusciamo a fare una proposta di Dio e a testimoniare una presenza nei luoghi del dolore. Partecipazione significa essere presenti fisicamente, sempre. Solo così cappellani ospedalieri e assistenti spirituali possono prendere parte concretamente all’esperienza della sofferenza. Per quanto riguarda la missione, ci consideriamo missionari in ambienti diversi da quelli tradizionali. Proprio perché non siamo una Chiesa in uscita, ma una Chiesa che è da sempre stata fuori abitando le periferie esistenziali per annunciare con la presenza e la testimonianza. Nella mia esperienza di cappellano mi sono a volte imbattuto in situazioni molto dolorose di fronte alle quali non trovavo parole da dire, ma sono stato ringraziato per esserci. Malattia e sofferenza mettono in contatto con la verità.
Che cosa si aspetta dal Sinodo, quali attese?
Ero presente quando i vescovi decisero di chiamarlo “cammino sinodale”. All’interno della loro assemblea si respirava un bellissimo clima e mi fu chiaro fin dall’inizio che non dovevamo aspettarci un risultato ovvio, ma essere aperti per cercare di accogliere questo vento dello spirito che attraversava la Chiesa. Non so che cosa aspettarmi, ma non lo so per scelta. Voglio vivere questo cammino pienamente, senza la certezza di sapere a che cosa mi porterà ma con la coscienza e la profonda fiducia che è lo Spirito a muovere il popolo di Dio. In questo percorso di discernimento e di comprensione, senza risultati scontati, la Chiesa troverà certamente nuova linfa e nuove forze per annunciare il Vangelo.
Giovanna Pasqualin Traversa
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