Faccia a faccia con il rettore della Lateranense

Mons. Alfonso Amarante parla del nuovo incarico alla guida dell’Università del Papa e degli insegnamenti di sant’Alfonso Maria de Liguori. Sul fronte culturale ed educativo afferma: «Abbiamo bisogno di dialogo e integrazione». Pensando all’Agro dice: «La nostra terra ha generato e sta generando professionisti di altissimo livello, ma fanno meno rumore di una mentalità di soprusi che stenta a morire».
Mons. Alfonso Amarante
Mons. Alfonso Amarante

Un ministero contraddistinto dalla «ricerca del bene e del bello» è quello che intende portare avanti mons. Alfonso Amarante. Il religioso della famiglia dei Redentoristi, nato a Pagani il 26 dicembre 1970 e cresciuto con l’esempio di sant’Alfonso Maria de Liguori, lo scorso primo agosto è stato nominato rettore della Pontificia Università Lateranense e creato Arcivescovo titolare di Sorres.

Un incarico, quello di guida della “Università del Papa”, così è definito l’ateneo di piazza San Giovanni in Laterano, da far tremare le vene ai polsi.

«Sorpresa, gioia e timore sono i tre sentimenti che mi contraddistinguono in questo momento», ha rivelato. Uno stato d’animo che ha avuto il suo culmine alla comunicazione della nomina: «È stato il pontefice in persona a dirmelo qualche giorno prima del primo agosto».

Eccellenza, qual è stata la sua reazione?

«La prima reazione istintiva è stata di rigetto perché si avverte inadeguatezza dinanzi ad una responsabilità del genere, poi di sorpresa e stupore, perché non ti aspetti che il Pontefice ti chiami per un simile incarico, infine, un misto di gioia e paura».

Quando l’ha comunicato ai suoi genitori e alla famiglia qual è stata la loro reazione?

«Lo hanno appreso qualche ora dopo l’ufficializzazione da un mio confratello. Non siamo riusciti a sentirci per tutto il primo agosto, ma solo nei giorni seguenti. Erano curiosi e preoccupati perché hanno capito l’impegno che richiede un tale incarico, ma penso abbiano avuto anche un pizzico di orgoglio e di soddisfazione personale, specialmente i miei genitori».

Cosa significa essere rettore dell’Università del Papa?

«Per me è un compito, un servizio che mi viene chiesto dal Pontefice, che cercherò di vivere attivando processi, più che occupando spazi. Portando avanti uno stile capace di dialogare con tutti, che sappia mettere in atto azioni virtuose per intercettare da un lato le domande di senso e di fede che nascono dal popolo di Dio e dai ricercatori di verità e dall’altro indicare le strade che, come Chiesa, dobbiamo percorrere nell’ambito formativo, teologico e canonico».

Da preside dell’Accademia Alfonsiana a rettore della Pontificia Università Lateranense. Un passaggio importante, che comporta onori e grandissimi oneri. Cosa cambia per la sua vita e nella sua vita?

«Cambia tantissimo. L’Accademia Alfonsiana è una Facoltà internazionale ed ha una autonomia didattica e gestionale. Studiare morale in un contesto di eccellenza significa studiare all’Alfonsiana a Roma. Se finora il 90 per cento delle energie erano per l’Accademia, ora il 99% delle energie sarà per la Pul e le sue varie facoltà. Cambia lo stile di vita. Passo da un progetto particolare, in cui credo fermamente, a un progetto globale e stimolante a servizio di tutto la Chiesa. Tutte le mie energie saranno per esso».

Papa Francesco lo definisce incarico «faticoso» ma «pieno di speranza». Come intende coniugare la fatica e la speranza?

«Siamo di fronte ad una Università pontificia, che ha un suo focus specifico su materie teologiche e canonistiche in particolare sul Diritto civile e il Diritto canonico. La “fatica” è come fare uscire questo tipo di insegnamento da una nicchia per entrare in dialogo con le scienze laiche. La “speranza” è costruire dei ponti con la cultura e il terzo settore. Perché la Teologia, la Filosofia, il Diritto o le Scienze della pace, hanno tutte le caratteristiche per dialogare con il mondo, ma soprattutto costruire una nuova società nel nostro mondo».

Professore di Teologia morale, sulle orme di sant’Alfonso. Quanto inciderà e come inciderà questa specifica formazione nella guida della PUL?

«La grande lezione che ci ha dato sant’Alfonso Maria de Liguori, Dottore della Chiesa e patrono dei confessori e dei moralisti, è quella di affrontare le problematiche che vive la persona umana incarnandosi nella realtà che egli affronta, evitando giudizi aprioristici. Fare teologia oggi significa partire da una chiara identità, ma tenendo conto che la realtà è superiore all’idea. In questo modo è possibile fare quei passi necessari verso il bene, il bello e il buono. Significa mettere al centro la persona di Gesù Cristo più che norme o atteggiamenti esteriori. La Teologia morale è chiamata a stimolarle l’uomo, sull’esempio di Cristo, a camminare verso il bene».

Arriva dopo un laico e durante una fase di cambiamento, di riorganizzazione delle istituzioni accademiche pontificie. Come affronterà questo processo rigenerativo?

«Mi posizionerò sul solco del rettore precedente, il professor Vincenzo Buonomo, che ha lavorato molto bene, ma soprattutto cercherò di sviluppare un dialogo costruttivo e costante con gli organi di governo come i Consigli di facoltà, il Senato accademico e il Consiglio Superiore di coordinamento».

ROMA 21-10-2006 UNIVERSITA’ LATERANENSE IL SANTO PADRE PAPA BENEDETTO XVI VISITA LA PONTIFICIA UNIVERSITA’ LATERANENSE IN OCCASIONE DELLA’ APERTURA DELL’ ANNO ACCADEMICO 2006-2007 E CCXXXIV DALLA FONDAZIONE – Foto Siciliani-Gennari/SIR

Il Papa le chiede un contributo di «intelligenza, prudenza, creatività e coraggio». Sarà supportato appunto da un Consiglio superiore di coordinamento composto anche da laici. Come imposterà il lavoro, quanto sarà importante il dialogo e in che misura è necessario il coinvolgimento della componente laicale della Chiesa e nella Chiesa?

«Il Consiglio Superiore di coordinamento è a supporto del Senato accademico. È composto da professionisti con competenze in gestione umane, finanziare e amministrative. Sono qualifiche importanti perché non sempre come presbiteri abbiamo questo tipo di competenze. Con i fedeli laici formiamo quell’unico corpo che è la Chiesa. Insieme siamo comunità. Con i laici impegnati siamo chiamati a vivere la comunione, per raggiungere lo stesso obiettivo. Ben vengano laici formati cristianamente e professionalmente che credono in un progetto da portare avanti nel segno della corresponsabilità. Oggi come Chiesa dobbiamo sviluppare una seria collaborazione paritetica con tutti i laici a supporto della missione che il Papa ci ha affidato».

Qualche settimana dopo, il 6 ottobre, nella Basilica di San Giovanni in Laterano riceverà la consacrazione episcopale. Come mai la scelta è caduta su Roma?

«Vivo a Roma da 20 anni e perché il “gregge” a cui sono mandato è quello della Pontificia Università Lateranense. Sono a servizio della Chiesa intera e sarò consacrato nella Basilica della Cattedra del Papa proprio per testimoniare questo servizio ecclesiale ed universale».

Chi la consacrerà?

«Il primo consacrante sarà il cardinale Joseph William Tobin, arcivescovo di Newark in New Jersey e già Superiore generale della Congregazione del Santissimo Redentore, i co-consacranti saranno il cardinale Angelo De Donatis, vicario generale del Papa per la Diocesi di Roma e gran cancelliere della Lateranense, e il cardinale José Tolentino de Mendonça prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione. Parteciperà anche il vescovo Giuseppe Giudice come segno di unione tra i Redentoristi e la Diocesi in cui sono nato e dove è presente sant’Alfonso».


La basilica di San Giovanni in Laterano

Sant’Alfonso diceva che nella vita è necessaria «la salute e tutte le grazie che per quella ci bisognano». Che cosa ritiene sia davvero necessario nella vita di un vescovo?

«Essere comunità e ricercare il bene l’uno per gli altri. Se io, o meglio, noi battezzati perdessimo di vista questo essere comunità e questo ricercare il bene l’uno per gli altri, insieme con gli altri, perderemmo di vista la salvezza, il cammino che ci porta alla santità. Mi auguro che questa missione affidata sia davvero un cammino per santificarmi e santificare nello stesso tempo».

Puntare sulla formazione, sulla cultura, risvegliare la passione educativa credo sia tra le priorità della Chiesa?

«È una delle grandi urgenze. Abbiamo bisogno di una cultura che non si chiude, ma dialoga e integra, che sappia far crescere. Pensi al nostro territorio dell’Agro: abbiamo una potenzialità enorme di persone altamente formate, ma che hanno difficoltà ad essere segno culturale vivificante perché ci sono resistenze che ottenebrano queste grandi risorse. La nostra terra ha generato e sta generando professionisti di altissimo livello, ma fanno meno rumore di una mentalità di soprusi che stenta a morire».

Il nuovo incarico non credo modificherà, se non per i maggiori impegni, il legame con la sua terra. L’essere redentorista, meridionale, campano, paganese in che modo ha caratterizzato finora il suo ministero e come lo caratterizzerà in futuro?

«Io devo tanto ai Redentoristi e alla terra in cui sono stato generato, oltre alla mia famiglia. Sono entrato in seminario nel 1990. Da allora, sono un po’ di anni che vivo fuori dall’Agro. Ogni anno ho sempre ritagliato il tempo necessario per stare a casa con i miei familiari e confratelli. Quello che mi hanno insegnato i Redentoristi è la vicinanza con il popolo di Dio, che è anche uno stile sacramentale. È qualcosa di cui faccio tesoro, ne ho fatto tesoro e non potrò lasciare, fa parte del mio Dna. Come sant’Alfonso, anche desidero andare incontro a chi ha più bisogno con semplicità, immediatezza e spontaneità. Ecco perché io non posso dimenticare le mie origini, il mio territorio».

Ho saputo che ama il calcio, il Napoli e la Paganese in particolare. Porterà la bandiera azzurrostellata alla Lateranense?

«Mi consenta una battuta: sono andato via quando il Napoli ha vinto il secondo scudetto, la nomina arriva con il terzo scudetto. In realtà, seguo un po’ tutte le squadre dell’Agro e le loro alterne vicende societarie e di classifica. Spero che anche lo sport possa essere un motivo di crescita per tutti quanti noi. Poi la Paganese ha un posto speciale nel cuore da quando ero bambino e i miei zii mi portavano allo stadio comunale oggi intitolato all’avvocato Marcello Torre ucciso per difendere la legalità e la verità».

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