Impariamo dall’Italia che scelse la Repubblica

Intervista ad Alberto Lo Presti, professore associato alla LUMSA.

2021: a 75 anni dalla nascita della Costituzione, a che punto siamo? All’indomani della Seconda guerra mondiale l’Italia seppe risorgere. Il ruolo dei cattolici fu importante. Ne abbiamo parlato con il professor Alberto Lo Presti.

Alberto Lo Presti è professore associato alla LUMSA, dove insegna Democracy in the digital era e Storia delle dottrine politiche. Da direttore della rivista Nuova Umanità, è molto attento anche alle dinamiche della comunicazione. Dal suo osservatorio privilegiato ci aiuta a celebrare l’importante anniversario e a rileggere l’impegno dei cattolici nella politica e nelle istituzioni, di ieri e di oggi.

Alberto Lo Presti
Settantacinque anni di Repubblica. Come sono portati?

Se guardiamo alla storia, e ci soffermiamo su tutte le tensioni e le minacce che hanno messo in pericolo l’assetto repubblicano, dobbiamo dire che il sistema istituzionale ha retto benissimo.

Ha assicurato sviluppo e democrazia. Ha tenuto sotto la Guerra Fredda. Ha superato gli anni del terrorismo interno e internazionale. Ha garantito continuità politica sotto l’impulso delle crisi economiche.

Il Referendum del 2 giugno 1946 fu uno spartiacque. Che cosa significò per l’Italia di allora?

Il Referendum fu molto più sofferto di quanto oggi ricordiamo. Le spaccature dentro il Paese, dentro i partiti politici, furono in alcuni casi laceranti.

Basti pensare che la Democrazia Cristiana si orientò a favore della Repubblica, ma l’elettorato cattolico era in buona parte, soprattutto nel Meridione, per la Monarchia.

Ci furono parti della gerarchia ecclesiale che inveirono platealmente contro coloro che sostenevano gli ideali repubblicani.

Questo perché si aveva paura del socialismo e del comunismo che guadagnavano consenso presso i ceti popolari, e dunque si temeva che la Repubblica portasse al potere i “senza Dio”.

La Repubblica vinse di un soffio.

La prima pagina del Corriere che annuncia la vittoria della Repubblica al Referendum
Nel 1946 votarono anche le donne.

Prima alle amministrative e poi al Referendum sulla forma di Stato. Insieme ai grandi Paesi del mondo, che in quegli anni estesero il suffragio alle donne, l’Italia si avvalse del fondamentale contributo di tutti alla configurazione del suo assetto costituzionale. 

Cosa dovremmo imparare da quell’Italia?

Costume, cultura, impegno. Gli italiani che si batterono per la democrazia, la libertà, l’unità, provenivano da una stagione terribile.

Il fascismo aveva perpetrato violenze, commesso crimini, ucciso la libertà e spento la partecipazione politica. Eppure molti cittadini seppero trarre i valori positivi per condividere un percorso comune con i propri avversari.

Le diversità di pensiero e vedute erano molteplici e anche molto marcate.

Democristiani, comunisti, socialisti, liberali, monarchici, avevano visioni differenti, opposte del mondo e dell’Italia. Eppure seppero lavorare per il bene comune, negoziando ogni virgola, ogni scelta, ogni strategia, pur di dare espressione politica al Paese. Se si vanno a vedere i discorsi parlamentari di De Gasperi, Nenni, Togliatti, Einaudi, La Malfa, Longo, Parri si rimane sorpresi dalla cultura politica, dal rispetto reciproco, dall’impegno per il bene comune

I cattolici ebbero un ruolo importante. Quei nostri padri avevano una marcia in più?

Ci sono molti fattori di differenza fra l’impegno cattolico di quell’epoca e quello di oggi. È evidente, tuttavia, che i cattolici di allora potevano contare su una cultura cattolica diffusa, sulla capacità di mobilitazione della Chiesa e del laicato cattolico, favoriti certamente dalle contrapposizioni ideologiche in atto.

C’era continuità fra la politica cristiana, la visione della Chiesa in materia sociale e civile, l’impegno di tanti laici nell’Azione Cattolica, nella Fuci

Igino Giordani, Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Giorgio La Pira. Sono trascorse diverse generazioni ma questi nomi hanno ancora un senso, suscitano rispetto e ammirazione. Cosa ci dicono queste esperienze?

La grandezza di questi personaggi è nei risultati che la loro azione politica ha maturato. Ne hanno passate di tutti i colori per consentire a noi, oggi, di vivere in pace, di partecipare alla vita pubblica con libertà e sensibilità verso le minoranze e gli emarginati.

Di più, hanno fatto tutto questo senza arretrare rispetto ai propri valori morali e religiosi. Il loro più grande insegnamento è che non è vero che chi fa politica è costretto a sporcarsi le mani. Non è vero che chi gestisce il potere deve per forza abbruttirsi.

Hanno mostrato l’esatto opposto. Si può fare politica muniti dei più alti principi morali. Si può stare in Parlamento forti dei più alti ideali cristiani. Si può essere coerenti con la propria fede religiosa ovunque e anzi laddove è più difficile è più prezioso e richiesto di essere profondamente e convintamente cristiani impegnati per il bene comune.

La prima pagina del Corriere che annuncia la vittoria della Repubblica al Referendum
Sembra che quell’eredità sia andata persa?

A mio avviso c’è un grande deficit di cultura e di competenza. Si può essere cristiani in molti modi. I politici dovrebbero esserlo con grande competenza. Pio XI, nel 1927, parlando ai dirigenti della Federazione Universitaria Cattolica, disse che la politica era “la forma più alta di carità”.

Questo concetto è stato via via ripetuto da tutti i pontefici successivi, fino a papa Francesco, che ha inserito questa espressione nell’enciclica Fratelli tutti. Ciò richiede preparazione, motivazione, cultura, profezia. Personalmente mi sono accorto, in alcune circostanze, che molti politici cattolici sono spesso poveri di cultura cristiana.

E in questo mondo materialista, individualista, relativista, non sono sempre in grado di usare i temi cristiani per sostenere il proprio punto di vista. È una necessità non rinviabile quella di formare ai temi della dottrina sociale della Chiesa.

Forse si gioca sulla confusione tra Chiesa istituzione e Chiesa come cammino di fede, scelta di vita?

Partiamo dalla natura stessa del cristianesimo. Esso “è” un messaggio sociale. “È” significa che è sbagliato pensare che dal messaggio cristiano si “ricava anche” (in seconda battuta) un significato politico e sociale. Una teologia senza sociologia non serve a niente.

Un Vangelo senza vita è una verità dimezzata. Pensare il dogma della trinità senza impiegarlo per amare il prossimo è blasfemia. Dunque la spiritualità cristiana è servizio sociale. La Chiesa come istituzione è al servizio della società. Le cose vanno insieme.

I nemici della Chiesa, quelli che non condividono le sue idealità, desiderano solo che ci occupiamo del canto gregoriano e delle feste patronali. E invece no: il messaggio di salvezza di Gesù è un cambiamento sociale, una contestazione perenne, un «segno di contraddizione». Spero proprio che non saremo così folli da cadere in questo tranello.

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