“La guerra è una sconfitta per tutti”. Lo ha affermato con forza Papa Francesco, in più occasioni. Come peraltro, magari con espressioni diverse, hanno fatto anche i suoi predecessori. Dalla condanna ferma dell’”inutile strage” di Papa Benedetto XV al “Mai più la guerra” di papa Giovanni Paolo II, fino alle parole di Bergoglio la condanna dell’uso delle armi, della contrapposizione violenta tra i popoli è un motivo ricorrente nell’insegnamento dei Papi, che guardano al mondo e agli uomini con l’occhio e il cuore attento alle persone, alle comunità e all’insegnamento del Vangelo.
Ma non c’è solo il fragore e la distruzione provocata dall’uso delle armi a determinare la sconfitta delle comunità umane, tutte. Più in profondità ci sono i semi dell’odio che spesso trovano terreno fertile e fanno crescere piante difficili da sradicare. Ed è in questo contesto che va collocato l’allarme crescente per un rinnovato antisemitismo in Europa, in Italia e ovunque, anche in seguito alla guerra in Palestina. Rinnovato, non rinato, perché purtroppo – e sono le cronache a ricordarlo – il sentimento antisemita non si può dire che sia mai stato espulso dalle società. Così come, in modi certamente diversi, esistono sentimenti di discriminazione e di odio tra gruppi diversi, etnici e religiosi, in molte parti del mondo, con minoranze perseguitate senza tregua.
Tuttavia l’odio antisemita ha un che di paradigmatico, vuoi per la lunga storia che lo caratterizza, vuoi per gli eventi tragici ed eccezionali legati al Novecento, la Shoah, che certamente hanno segnato la storia. Per questo, in particolare in Europa, la crescita esponenziale di manifestazioni e atti vandalici contro gli ebrei deve giustamente mettere in allarme, provocare condanne e soprattutto attenzione per contrastare fenomeni che hanno la capacità di diffondersi con facilità.
Come si fa? Bastano le parole? Le prese di posizioni autorevoli? O le azioni di polizia e di contenimento rispetto a gruppi di facinorosi?
Probabilmente no, anche se certo hanno il loro valore. Quello che più conta è invece costruire una cultura diversa da quella della contrapposizione e dello scontro, alla radice delle discriminazioni. E la scuola certo può e deve fare la sua parte.
Il ministro Valditara ha affermato nei giorni scorsi testualmente: “La scuola costituzionale deve fornire gli antidoti contro qualsiasi rigurgito di discriminazione e di antisemitismo. È quella che insegna il giudizio. Quella del pregiudizio è la scuola fascista, comunista e di tutti i totalitarismi”. E se qualcuno ha memoria – poiché il tema dell’antisemitismo è da sempre di attualità – ricorderà che solo due anni fa la scuola italiana si è dotata addirittura di alcune “Linee guida sul contrasto all’antisemitismo nella scuola”, presentate dall’allora – era il 2021 – ministro Patrizio Bianchi, che ricordava tra l’altro, fissando l’attenzione sulle tragedie del Novecento, come “l’istruzione è lo strumento più potente per combattere ogni forma di negazione e distorsione dell’Olocausto e allo stesso tempo arginare odio e nuovi razzismi”.
Perché la scuola questo cerca di fare: creare inclusione, dibattito, rispetto e così valorizzare gli antidoti a ogni discriminazione.
Beppe Severgnini, in un articolo sul “Corriere della Sera” riportava la vicenda esemplare di una scuola palestinese in visita ad Auschwitz, sottolineando come sia importante, per vivere autenticamente da persone umane, comprendere “il dolore degli altri”. Ecco, la scuola va in questa direzione: non solo a proposito del “dolore”, ma insegnando a cogliere anzitutto “gli altri” non come nemici ma come compagni di strada, indipendentemente dalle diversità di ciascuno. Insegna a stare insieme e non “contro”.
Serve sempre. Oggi bisogna ricordarselo.
Alberto Campoleoni
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