Sfide social per ragazzi soli

Il tema che pericolosamente riemerge è la preoccupante mancanza di senso della realtà che la lunga esposizione alla rete determina soprattutto nei giovanissimi.
Foto di natureaddict da Pixabay

Si torna a parlare di “sfide social”. Tra le più recenti, con 131 milioni di visualizzazioni: la “Hot chip challenge”, che consiste nell’ingerire senza bere acqua una “patatina superpiccante”, venduta in una confezione monoporzione a forma di bara su Internet. Negli Usa, dove il prodotto è stato prontamente ritirato dal mercato, in seguito alla sfida un ragazzino di 14 anni è morto per una crisi respiratoria.

In Sicilia, sempre negli ultimi giorni, due dodicenni sono finite in ospedale per aver bevuto della candeggina. Anche in questo caso, pare che all’origine del gesto ci fosse una “sfida social” che sta diffondendosi tra i preadolescenti.

Sono fatti che, purtroppo, ci riportano alla memoria il terribile incidente di Casal Palocco a Roma del giugno scorso, causato dalla forte velocità di una Lamborghini noleggiata da alcuni youtuber proprio per realizzare una “challenge”.

Purtroppo, il fenomeno delle “sfide social” è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni. Pullulano nel web, oltre alla “Hot chip challenge”, altre competizioni che riguardano il cibo. Ci si sfida per mangiare grandi quantità di alimenti in pochissimo tempo o, all’estremo opposto, per limitarne al massimo l’assunzione. Non mancano, poi, giochi ancora più pericolosi come la “Blackout Challenge”, che sprona i giovanissimi a provare a rimanere senza ossigeno il più a lungo possibile, o la “Balconing challenge”, che prevede che gli sfidanti compiano dei salti acrobatici lanciandosi da un balcone, e la “Knockout challenge” che consiste nello sferrare un pugno in piena faccia a uno sconosciuto e fuggire via.

Insomma, oltre a essere virali queste iniziative sono assai variegate.

In ogni caso, il tema che pericolosamente riemerge quando ci troviamo di fronte a vittime, o a manifestazioni collettive di comportamenti anomali, è la preoccupante mancanza di senso della realtà che la lunga esposizione alla rete determina soprattutto nei giovanissimi.

Un recente studio, condotto nel 2022 nell’ambito del progetto dipendenze comportamentali nella generazione Z dal Centro nazionale dipendenze e doping dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) con il supporto del Dipartimento delle Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha evidenziato che il 6,7% degli studenti tra gli 11 e i 17 anni (e cioè 243 mila ragazzi) ha partecipato almeno una volta a una challenge, il dato più alto si concentra nella fascia di età 11-13 anni con una netta prevalenza tra i maschi.

I ragazzini spesso partecipano per divertirsi, o per raccogliere follower e visualizzazioni, pensando di poter controllarne le conseguenze. Oltre ad aver accesso alla rete troppo precocemente e a farlo eludendo i deboli e inefficaci controlli da parte dei genitori, i giovanissimi non hanno gli strumenti per comprendere fino in fondo la portata delle proprie azioni in rete.

Da questo punto di vista manca anche una formazione all’uso consapevole degli strumenti digitali che nelle scuole bisognerebbe iniziare a fornire seriamente.

La social challenge non è di per sé una dipendenza, ma un comportamento legato a un uso distorto del cellulare e dei social. Attecchisce, inoltre, più facilmente nei soggetti fragili e problematici, soprattutto tra quelli più soli.

Solitudine e “abuso” della rete sono fenomeni strettamente connessi. I ragazzini tra gli undici e tredici anni sono nella fascia di età delle scuole medie. Rientrano da scuola, mangiano e poi nel corso del pomeriggio hanno a disposizione diverse ore in cui sono soli. Tendono a intrattenersi giocando con i videogames, confrontandosi con amici “virtuali” e incappando in alcuni casi in situazioni o personaggi poco raccomandabili. Tutto quello che avviene in quelle ore di solitudine e autogestione non è sempre facilmente rintracciabile da parte dei genitori e spesso viene anche sottovalutato.

Il pomeriggio si trasforma così spesso in uno spazio “vuoto”, dove la famiglia fornisce indicazioni “a distanza” che hanno un aspetto normativo più che educativo e quindi sono soggette a essere eluse o trasgredite, a volte con conseguenze disastrose.

Silvia Rossetti

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