L’inclusione possibile. In visita al ristorante RAÙ Cucina Tipica di Angri

A servire ai tavoli sono due ragazzi autistici assunti con un regolare contratto di lavoro. Una straordinaria esperienza di inclusione e di riscatto.

Chi, navigando su Facebook, apre la pagina del ristorante RAÙ Cucina Tipica di Angri, trova questa descrizione: “Raccontiamo la tradizione attraverso la nostra cucina, fatta di ricerca e tanto amore. Il nostro ristorante è un posto speciale, dove si mangia di gusto, qui ci si sporca le mani con panini, si assaggiano piatti della tradizione. Anche senza glutine”.

Nessun riferimento all’autismo, alla disabilità. Ma RAÙ è molto più di un semplice ristorante. RAÙ sta per Ragazzi Autistici Uniti.

A raccontarci questa straordinaria esperienza di inclusione e di riscatto è la titolare dell’attività, Imma Faravolo.

Per scoprire le radici di RAÙ bisogna tornare indietro di venti anni. Imma, originaria di San Gennaro Vesuviano, è madre di una bellissima bimba, Flora, morta a soli quattro mesi per una malformazione cardiaca congenita e per un sottovalutato errore dei medici durante un intervento chirurgico. «Sono comunque contenta che lei sia esistita – confessa Imma -; Flora mi ha insegnato tanto. Con lei sono diventata mamma, ho scoperto la grande forza che avevo e cosa significa il dover combattere».

Siamo nel dicembre 2001. Il dolore di Imma è troppo forte: «Ero come uno zombie che cammina. Avevo detto che avrei cancellato dal calendario questo mese. Non si dà un figlio ad una mamma per poi toglierglielo. È contro natura. Il figlio deve vedere la morte della madre, non il contrario». Ma un anno dopo, nel dicembre 2002, nasce Antonio, a otto mesi anziché nove. Ma in Antonio c’è qualcosa che non va, Imma se ne accorge subito: «Quando si svegliava lo trovavo nell’angolo della culla, in piedi, muto. Non piangeva, non strillava. Ha iniziato a parlare a 8 anni».

Dopo un consulto medico arriva la diagnosi: autismo. «Antonio è bellissimo, ma Flora lo era di più. Se avessi avuto la possibilità scegliere, di certo avrei scelto l’autismo e non un letto vuoto. Me lo dico sempre: forse mi è successo quello, perché dovevo essere pronta a ciò che mi sarebbe accaduto dopo».

Imma, con suo marito e suo figlio, si trasferisce a Sant’Egidio del Monte Albino, dove possono costruire una casa idonea per le esigenze di Antonio: «Ho iniziato a studiarlo. Gli lasciavo la casa libera e lo osservavo».

Grazie a suo figlio, Imma scopre l’autismo e si impegna, insieme ad altre famiglie con figli autistici, in un coordinamento regionale che raggruppa diverse associazioni e cooperative. Antonio cresce e nella mente di Imma inizia a farsi strada un interrogativo: che ne sarà di suo figlio quando lei e suo marito non ci saranno più? È il tema del cosiddetto dopo di noi: «Altrove c’erano già altre realtà, ma qui non c’era nulla». Così pensa a quello che ha sempre saputo fare: la ristoratrice. Chiede aiuto, nell’ambito del coordinamento regionale, a Vincenzo Abate, padre di due ragazzi autistici, di Casal di Principe, a cui si affianca in seguito Alfonso Diana, casertano, anch’egli papà di un ragazzo autistico. I tre diventano soci.

Dopo una lunga e difficile gestazione, l’8 febbraio 2020 Imma alza la saracinesca della nuova attività: RAÙ è realtà. «All’inizio la gente ci guardava con un po’ di leggerezza, diffidenza. C’è una disabilità peggiore di tutte: è l’ignoranza, sempre più dilagante purtroppo. All’inizio i clienti si alzavano e se ne andavano. “Pensavamo di stare in un ristorante normale” ci dicevano. Poi abbiamo preparato un bel cartellone per spiegare chi eravamo».

Imma ha uno slogan: «Siamo tutti uguali». «L’autismo si nasconde in ognuno di noi – è la sua convinzione –. RAÙ è l’unico mezzo che abbiamo per inserire questi ragazzi nella società dimostrando che, nonostante le difficoltà, possono lavorare. È un’occasione di riscatto». Non trascorre un mese dall’apertura del locale e arriva la pandemia. Nel marzo 2020 bisogna chiudere i battenti. Dopo un po’ si può riaprire, ma solo per il delivery: bisogna far abituare i ragazzi alle mascherine e alle consegne a domicilio.

Il 19 novembre 2021 è una data importante per RAÙ: Danilo, 30 anni, è il primo ragazzo con disabilità intellettiva a firmare un contratto di lavoro. Oggi è lui a servire i clienti ai tavoli insieme a Cristina, 23 anni, che grazie a questo lavoro è rinata.  

Passa l’emergenza sanitaria e, fra stress e alterne vicende familiari, per Imma giunge il tempo della malattia: «Ho iniziato a stare male, a non mangiare; ho perso 30 chili; non riuscivo a parlare. Mi cadeva tutto dalle mani. Prendevo diverse tachipirine al giorno per non abbandonare il ristorante e i ragazzi». Viene operata d’urgenza all’intestino e la situazione si assesta, per la gioia dei “suoi” ragazzi.

Imma sente tutto il peso dell’attività da mandare avanti. «Se RAÙ chiude, loro tornano a casa. Non c’è nessuna possibilità per loro in giro; non li vuole nessuno. Io non posso deluderli. C’è una lacuna istituzionale sul nostro territorio. Ci sentiamo abbandonati da tutti».

Se RAÙ è molto più di un ristorante, Imma è molto più che una semplice titolare di un’attività: è un’educatrice, un punto di riferimento per Danilo, Cristina e per i ragazzi che hanno lavorato o lavorano con lei. Alla domanda «Rifaresti quello che stai facendo?», risponde: «Altre mille volte. Qui devo guadagnarmi il Paradiso. Dall’altra parte c’è qualcuno che mi aspetta».

Sembrano ritornare le parole utilizzate da papa Francesco nella sua ultima enciclica: «Prendersi cura della fragilità dice forza e tenerezza, dice lotta e fecondità in mezzo a un modello funzionalista e privatista che conduce inesorabilmente alla “cultura dello scarto”. […] Significa farsi carico del presente nella sua situazione più marginale e angosciante ed essere capaci di ungerlo di dignità» (Fratelli Tutti, 188).

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