La trasmissione della fede avviene prima che in ogni altro luogo in famiglia. Dal giorno del nostro Battesimo sono i genitori, con i padrini e gli altri parenti i primi credenti presso cui possiamo ricevere il nutrimento di insegnamenti e di esempi che si affiancano e alimentano la Grazia del sacramento.
In particolare la frequenza all’Eucarestia domenicale, centro propulsore della settimana è pratica che si vive in modo naturale assimilando la pratica in casa e trovando poi vigore nella condivisione con la comunità parrocchiale. Se ciò può dirsi il naturale evolversi di generazione in generazione dell’essere cosiddetti praticanti, è anche vero che oggi sempre più spesso questo passaggio di testimone non avviene in modo scontato e tanto meno automatico.
Quando si superano gli anni del catechismo per l’iniziazione cristiana e si riceve la prima Comunione, già molti ragazzi si fermano nel loro cammino di fede e ancora di più questo si verifica dopo il sacramento della Confermazione. Sono gli anni dell’adolescenza, quelli da sempre più delicati e tormentati nella crescita dei ragazzi e così come tante altre domande esistenziali, anche quelle legate alla pratica religiosa vengono poste in modo spesso impulsivo, caotico, senza ponderatezza perché è tipico di quegli anni non averne.
Accade così che anche quando i genitori non abbiano apparentemente fatto nulla per disincentivare i figli alla frequenza della vita comunitaria, questi ultimi, insieme ad altre forme di ribellione e sforzo emancipatorio, mettano in campo anche il rifiuto dell’eredità di fede. Si tratta di uno strappo a volte brusco, a volte lento e più silenzioso, ma non meno profondo.
Dopo le prime assenze senza grandi giustificazioni, la disaffezione dai sacramenti si può manifestare in modo più radicale e argomentato. È a questo punto che non di rado i padri e le madri si trovano a disagio di fronte ad un rifiuto che non sanno come gestire. Spesso mancano le risposte che si vorrebbero dare per sostenere la causa.
Non a tutti è dato di avere una formazione spirituale che permetta di intessere un discorso convincente. E soprattutto di frequente non si sa come dare risposte perché a monte mancano le domande. I giovani si intiepidiscono nei confronti della pratica religiosa e non danno, né cercano spiegazioni.
Che fare a questo punto? È importante non perdere la calma e da parte degli adulti si richiede l’intelligenza di saper gestire questa mancanza di motivazioni nei propri figli. In primo luogo è da bandire ogni forma di coercizione.
Dopo una certa età costringere i ragazzi a venire a Messa la domenica sarebbe proprio una forzatura controproducente. Si presterebbe il fianco ad un’immagine di Dio che pretenda di essere adorato anche controvoglia, un’immagine assai lontana da quella di Gesù che ci ha chiamati amici e non servi e che offre il suo corpo in sacrificio per noi.
Pedagogicamente bisogna far nascere nei figli quel senso di appartenenza al corpo di Cristo che è la Chiesa attraverso la partecipazione all’Eucarestia come forma di ringraziamento comunitario. Lasciarli, dunque, liberi di non frequentare fin tanto che non nasca in loro una curiosità, un desiderio di conoscere le cause della gioia che i cristiani provano nell’accostarsi all’altare del Signore. Con pazienza, senza istigare sensi di colpa, ma provocando, invece, un bisogno di capire, l’attrazione verso una bellezza che si può sperimentare in prima persona.
Se è vero che primi testimoni sono i genitori, è altrettanto vero che talvolta può essere l’esempio di un coetaneo, o la particolare creatività di un animatore poco più grande. Sono tante le vie da cui passa lo Spirito e vale sempre la forza dell’esempio, la forza paziente e discreta dell’attrazione più che l’ansia del convincere teorico.
Giovanni M. Capetta
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