Il prete innamorato

Ricordiamo Monsignor Giovanni Iaquinandi, scomparso oggi pomeriggio nella sua San Marzano sul Sarno ad 80 anni, con l’intervista rilasciata ad Antonietta Abete e pubblicata sul numero di settembre 2012 del giornale diocesano Insieme. Un colloquio che non ha perso di attualità e che evidenzia le peculiarità di un sacerdote amato da tutti.

 

Corpo esile e cuore di un fanciullo ardentemente innamorato di quel Gesù a cui ha donato la sua vita il 28 giugno del 1965. Dal 1990 è parroco di San Biagio in San Marzano sul Sarno. Sguardo mite e voce lieve, don Giovanni mi accoglie nel suo studio in una calda giornata di fine luglio. È la stessa parrocchia nella quale da bambino entrò e scoprì l’amore per l’Eucaristia. Dalle sue parole traspare tutta la freschezza della sua vita sacerdotale. Una vocazione fortificata dal tempo, dalle prove, dall’esperienza.

 

Quarantasette anni spesi al servizio di Cristo: ricorda i primi sussurri della sua vocazione?

«Certo, sono impressi nel cuore. Una mattina, avevo 7 anni, invece di andare a scuola, entrai in Chiesa. Scorsi un sacerdote che celebrava e un ragazzo che serviva la Messa, con la borsa della scuola poggiata vicino alle ginocchia. “Posso fare anch’io lo stesso?”, domandai a me stesso. Ritornai a casa e chiesi alla mia mamma di parlare con il sacerdote per fare il ministrante. Da quel momento, è cresciuto in me il desiderio di poter celebrare l’Eucaristia. Era un anelito del cuore: arrivare al sacerdozio per celebrare la Santa Messa. Tra questo desiderio e il compimento, vi sono anni di formazione».

Che cosa non deve mai mancare nella vita di un prete?

«La preghiera! Che non intendo semplicemente come recita di formule o della Liturgia delle Ore. La preghiera è tutto ciò che mi mette in contatto con colui che io amo e che il mio cuore cerca, davanti al quale trovo la gioia. Ecco, potremmo dire: io non so fare a meno di Lui, così come il suo amore misericordioso non sa fare a meno di me! Ciò che viene dopo, la pastorale, che noi chiamiamo servizio, deve essere solo un riflesso di questo incontro d’amore».

Possiamo affermare, allora, che la pastorale nasce dallo stare in ginocchio?

«Sì, in proporzione diretta. Se le ginocchia non si consumano, non si produce niente nella pastorale».

Nella vita di un prete non mancano le prove. Quali sono le più frequenti e quelle più difficili da affrontare?

«Vi sono prove che vengono dal Signore e si superano con la preghiera, l’adorazione e l’Eucaristia. Vi sono, poi, altre prove che Dio permette ma che vengono dagli uomini e possono creare grosse difficoltà. In questo caso, alla preghiera bisogna aggiungere la pazienza e aspettare che il tempo passi. Oltre che dalla preghiera, queste prove devono essere corroborate dalla pazienza del contadino che sa aspettare che la pianta, concimata e potata, porti frutto al tempo opportuno».

Oggi c’è penuria di vocazioni: cosa cambierebbe nella pastorale giovanile e vocazionale?

«Quando sono stato ordinato, la Messa si celebrava al mattino. Ci dicevano: «Ricordati che al mattino, tu Lo offri (Gesù), durante la giornata sei tu che ti offri». La presenza di un sacerdote che ama Gesù è il motore di una pastorale giovanile e vocazionale. Non sono le parole che convincono, piuttosto il rapporto personale con il Signore che riempie la vita di un prete».

Nella sua parrocchia sono cresciuti parecchi giovani che oggi sono presbiteri diocesani. In che modo è riuscito a farli innamorare di Gesù?

«Racconto con semplicità ciò che essi stessi mi hanno confidato: rimanevano meravigliati ogni volta che venivano in Chiesa e mi vedevano inginocchiato dinanzi a Gesù Eucaristia. Così si sono avvicinati. Ho iniziato a camminare insieme a loro, ad interessarmi delle loro gioie, delle loro sofferenze, della vita in famiglia. Li ho fatti partecipare alla mia vita sacerdotale: li portavo dagli ammalati e presso le famiglie. C’è stata una condivisione piena. Da questa esperienza sono nate le loro risposte personali e la decisione di fare un cammino di discernimento. Il Signore ha fatto il resto».

 Tre nuovi sacerdoti per la nostra Chiesa diocesana (don Giuseppe Perano, don Salvatore Agovino e don Carmine Cialdini, nda): cosa ha pensato quando ha partecipato alla loro liturgia di ordinazione?

«Ho rivisto me stesso, 47 anni fa, sul tappeto con la faccia a terra e ho rivissuto l’attimo in cui mi sentii una cosa sola con la terra, un nulla. Quale sarebbe stato il mio futuro? Non lo sapevo. Ma avevo Gesù accanto. Lui c’è sempre stato, anche se non sempre me ne sono accorto e talvolta mi sono lamentato. Quando diventavo più sereno, Gesù mi riprendeva e mi diceva: «Guarda che io ero lì e tu non te ne sei accorto!». Nelle tre ordinazioni ci sono state tre omelie del vescovo Giuseppe davvero belle e profonde, ha adattato la Parola alla vita e alle esperienze dei tre giovani presbiteri».

 Che consiglio darebbe ai preti più giovani, pieni di entusiasmo ma anche più esposti alle delusioni e alle prove per mantenere viva la gioia del sacerdozio?

«Devono scegliersi un amico con cui percorrere la strada, una persona che abbia alle spalle un cammino provato dalla sofferenza, dalla fedeltà e dall’amore».

 Il vescovo Giuseppe l’ha scelta come Vicario generale. Un riconoscimento delle sue qualità umane e spirituali ma anche una responsabilità. Cosa è cambiato da quel giorno nel suo cuore e nella sua agenda?

«Quando il Vescovo me lo ha proposto, ho detto subito di no. Mentre andava via, mi ha sorriso e mi ha chiesto di pensarci. Ho detto a Gesù: «Farò quello che mi metterai nel cuore». Ho continuato a fare le cose di ogni giorno e il pensiero di Vicario generale non c’era più, né nella mente né nel cuore. Dopo qualche mese, ho vissuto una giornata sacerdotale intensa e particolare, non mi era mai capitato prima. Al mattino ho celebrato prima un esequie, poi un matrimonio. Nel primo pomeriggio dovevo dare l’ultimo saluto ad un giovane di 35 anni. Sono andato in Chiesa un po’ prima, per prepararmi con l’adorazione eucaristica. Ma davanti alla sacrestia mi aspettava un giovane in lacrime che voleva suicidarsi. Abbiamo parlato un’ora. Non c’era più tempo per l’adorazione, ho celebrato immediatamente il funerale del giovane 35enne e ho dato una speranza a familiari ed amici. Dopo un’ora, ero di nuovo in parrocchia a celebrare, questa volta, un cinquantesimo di matrimonio. «Signore, perché fai così?», ho detto in silenzio. Un giovane della parrocchia mi ha chiesto: «Vi ho visto piangere a dirotto di fronte al giovane morto e sorridere mentre celebravate i due matrimoni. Non siete un attore, perché ho visto le vostre lacrime e la vostra partecipazione sincera alla gioia. Che cos’è tutto questo?». Gli ho risposto: «È il mistero della Pasqua, c’è Gesù che appare facendo vedere le piaghe e i discepoli, al vederlo, gioivano». Gesù mi ha fatto vivere interiormente questa grande esperienza. A sera tarda, senza forze, mi sono messo a sedere davanti a Gesù crocifisso, guardandolo senza parlare e senza lamentarmi. Mi sono svegliato che era passata la mezzanotte. Nel cuore, questa frase: devi accettare l’incarico del Vescovo, te lo do per la tua conversione. La mia agenda è cambiata, perché la vocazione sacerdotale, che è il dono di sé, devo espletarla in questo nuovo ufficio. Ma il ministero è sempre lo stesso: servizio e dono di sé, perché Gesù sia conosciuto e amato nel nostro territorio».

 I preti non sempre sembrano molto preoccupati di costruire comunione con gli altri presbiteri, ma il vescovo Giuseppe ha ribadito che essere famiglia è un obiettivo irrinunciabile. Quali sono in concreto i passi da fare?

«Se guardiamo la famiglia del nostro territorio ci accorgiamo che non c’è comunione tra genitori e figli né tra fratelli. Respiriamo un’aria impregnata di individualismo e relativismo. Conta quello che io voglio, quello che io sento, quello che mi conviene. C’è bisogno che ognuno si metta davanti al Signore per riscoprire il che un giorno ha pronunciato. È a partire da questo che possiamo ritrovare noi stessi, ritrovando gli altri; possiamo costruire noi stessi, costruendo con gli altri. Senza comunione rimaniamo insoddisfatti, vittime dell’angoscia della solitudine che attanaglia ogni uomo. Non possiamo essere Chiesa, lavorare per la Chiesa senza che tra noi e con il Vescovo ci sia questa comunione. La mia preghiera è che la Madonna ci dia questa grazia. La Vergine ha vissuto con gli apostoli. Anch’essi, forse, erano individualisti, avevano il loro carattere e le loro preferenze. Ma la Madonna è rimasta in mezzo a loro e la sua presenza e lo Spirito hanno creato una famiglia nuova. La mia preghiera è che la Madonna conceda tutto questo alla nostra comunità diocesana».

 

Antonietta Abete

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