“Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari […] Sapete pure che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, 12vi abbiamo incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio, che vi chiama al suo regno e alla sua gloria” (1Ts 2, 7-8.11-12).
L’apostolo Paolo presenta il suo ministero con l’immagine della madre che nutre e ha cura dei suoi figli. I vocaboli utilizzati fanno pensare ai bambini piccoli che vengono nutriti al seno e riscaldati con il più affettuoso degli abbracci. È così grande l’affetto che nutre per loro da desiderare di donare non solo il Vangelo ma la sua stessa vita, tutta la vita (2,8). Dopo aver ricordato di aver lavorato notte e giorno “per non essere di peso ad alcuno” (2,9), l’apostolo usa anche l’immagine della paternità: “come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, incoraggiandovi e scongiurandovi a comportarvi in maniera degna di quel Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria” (1Ts 2, 11-12).
Se la figura materna richiama la dolcezza e la premurosa sollecitudine, quella paterna è legata all’impegno di esortare, incoraggiare e scongiurare a rimanere fedeli alla verità ricevuta.
Tre verbi che descrivono il ministero che egli ha esercitato nella comunità: esortare significa offrire precisi orientamenti di carattere dottrinale e morale; incoraggiare vuol dire consolare chi sperimenta la debolezza; scongiurare indica la coscienza di parlare e agire in nome di Dio. Sono tre verbi che possiamo utilizzare anche per descrivere il compito di ogni buon educatore, tre verbi che don Enrico ha saputo fedelmente declinare.
Come un padre
Don Enrico sapeva che i suoi ragazzi non avevano solo bisogno di vitto e alloggio, prima di tutto avevano bisogno di ricevere l’amore di un padre, avevano bisogno di sentire che non erano abbandonati a sé stessi e che qualcuno si prendeva cura di loro. D’altra parte, la vocazione sacerdotale si esprime in primo luogo attraverso la paternità, icona di quell’amore che Dio desidera comunicare a tutti.
Il benefattore dona qualcosa, poco o molto che sia. L’educatore, invece, dona tutto perché dona sé stesso. Don Enrico ha dato una casa, ha nutrito, ha insegnato un mestiere… ma, prima di tutto, ha dato sé stesso. Per questo sceglie di vivere con i suoi ragazzi, come avrebbe fatto un buon padre di famiglia. In una lettera inviata a Federico Russo sono gli stessi ragazzi, i primi che hanno trovato accoglienza presso la Città, che danno questa testimonianza: «Ieri soli nella vita, oggi con un sacerdote che ci protegge e ci ama quanto se stesso; ieri erranti ed incerti del nostro destino; oggi con un avvenire che ci sorride; ieri senza tetto, oggi con un tetto che ci accoglie e ci difende; ieri senza pane, oggi con un pane sicuro» (M. Vassalluzzo, Alba e tramonto, p. 51).
Vivrà con me
La Città dei Ragazzi non è ancora sorta, con grande fatica e non senza ricevere immancabili delusioni da quelli che amano chiacchierare ma non muovono un dito, don Enrico cerca di trovare i soldi per costruire il primo fabbricato. Tutte le sue energie per ora sono investite nella raccolta dei fondi necessari. Ma la Provvidenza lo incalza e lo costringe a iniziare subito. È lui stesso che racconta questo episodio:
«Ho assistito ad una scena pietosa. Un fanciullo scalzo, senza camicia, coperto solo da una giacca e da pantaloni laceri, a brandelli, era travolto da una macchina. Con la mia vespa mi fermai, lo caricai sulla macchina che seguii fino all’ospedale di Torre Annunziata, dove il ragazzo, Pasquale Cirillo, ferito alla testa, fu ricoverato. Chi era? Un povero orfano d’ambo genitori… Finora ha vissuto nelle stazioni, nei cortili. Molte volte è stato inseguito dalla polizia, ha raccattato mozziconi di sigarette che vendeva a 1000 lire il chilogrammo. Una storia pietosa. L’ho portato via dall’ospedale, vivrà con me sino a quando potrò condividere con lui un boccone. Egli è il primo cittadino della Città dei Ragazzi» (10 febbraio 1951).
Non c’è ancora la Città, quella che lui sogna, ma un cuore che ama non rimanda la carità a data da destinarsi. Quel giorno don Enrico si ferma e apre le braccia. Quel ragazzo è il suo primo figlio, il primo di una lunga schiera.
Il valore della vita
Il sacerdote angrese aveva le idee chiare, non è un assistente sociale e non si accontenta perciò di dare quel che serve per vivere. Vuole dare molto di più, come appare chiaramente in questa lettera che indirizza al costruttore Lamaro: «Ai figli della strada, che a stuoli sono venuti fuori dai rottami di una guerra distruttrice, privi del sorriso della madre, della protezione del padre, i quali nella vita avanzano senza ideali e senza speranza, io debbo ridonare l’anima che essi hanno, inconsapevolmente, perduta, far loro comprendere il valore della vita, amare il lavoro» (29 ottobre 1949).
Non basta toglierli dalla strada, occorre metterli in condizione di scoprire la bellezza della vita, la gioia di amare ed essere amato. Avviene così quel che possiamo chiamare il miracolo educativo: quei ragazzi che agli occhi di tanti erano considerati socialmente irrecuperabili, diventavano onesti cittadini capaci di inserirsi responsabilmente nella vita sociale. Sono quei miracoli che possono nascere soltanto dall’amore e dalla fede di un prete che ha scelto di vivere e manifestare la paternità di Dio.
Silvio Longobardi
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