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Don Enrico e il beato Bartolo Longo

Don Enrico Smaldone conosceva molto bene l’opera del beato Bartolo Longo, che aveva fatto di Pompei la città di Maria e dei bambini orfani e abbandonati.

Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù.  Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.  Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».

La Vergine Maria nella vita di don Enrico.

A Cana di Galilea la festa di nozze è attraversata da ombre pesanti, la mancanza di vino soffoca la gioia e genera un disagio palpabile. È Maria che interviene con determinazione e discrezione, senza farsi notare. Il racconto mette Gesù al centro della scena, è Lui che comanda ai discepoli di riempire le anfore e di portarle al maestro di tavola. Ma tutto passa attraverso Maria che, in questa pagina, viene nominata tre volte e sempre con l’appellativo di madre. Un modo per sottolineare che il suo ruolo scaturisce dall’intimo legame con Gesù. La Vergine prima si rivolge al Figlio e subito dopo, malgrado l’apparente risposta negativa, comanda ai servi di tenersi pronti e di fare esattamente quello che Gesù chiederà: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). 

La presenza della Vergine nella storia della Chiesa è talmente ampia da far dire a Paolo VI che «non può essere pienamente cristiano, chi non è anche mariano». Il legame indissolubile che unisce la Madre al Figlio si riverbera anche nella fede. 

Negli scritti e nelle testimonianze legati a don Enrico ho cercato di raccogliere i frammenti mariani, non ho trovato molto, tuttavia, non posso dubitare che la Madonna lo abbia teneramente accompagnato e sostenuto nella quotidiana sfida della carità. 

Nella luce dell’eccomi

Don Enrico Smaldone conosceva molto bene l’opera del beato Bartolo Longo, un laico che aveva eroicamente intrecciato l’esperienza di fede con quella della carità, facendo di Pompei la città di Maria e dei bambini orfani e abbandonati. Il Santuario della Beata Vergine del Rosario è un riferimento essenziale per i sacerdoti della nostra terra. È qui che si reca il 10 gennaio 1951, come scrive all’amico e benefattore Federico Russo: «Carissimo Federico, sono stato stamane con tuo padre e tua madre al Santuario di Pompei per celebrare una Messa sull’altare della Madonna. Abbiamo molto pregato insieme anche per te». Chissà quante altre volte è ritornato in quel Santuario per affidarsi alla Vergine nei momenti più faticosi, quelli in cui non c’era più vino. 

La vita e il ministero di don Enrico si svolgono quasi interamente nella cornice geografica e spirituale della parrocchia dedicata all’Annunziata. In questa chiesa ha ricevuto il Battesimo, nel territorio di questa parrocchia è sorta la Città dei ragazzi. L’episodio evangelico dell’annunciazione non poteva non essere costantemente presente nella sua mente e nel suo cuore. L’eccomi di Maria è stato per lui una luce che certamente ha ispirato la scelta e lo ha sostenuto nei momenti di sconforto. 

Flavio Amodio, uno dei ragazzi che hanno vissuto alla Città, racconta che una notte ebbe paura. Aveva solo dieci anni, troppo pochi per capire e fronteggiare le avversità. Non c’erano le braccia di una madre a rassicurarlo ma c’era un padre. Corse da don Enrico. Il sacerdote lo ascoltò e lo invitò a pregare con fiducia la Madonna: «Un Padrenostro, un’Ave Maria e soprattutto fatti il segno della croce».  

La via dell’umiltà

La Madonna non è solo una Madre alla quale possiamo sempre ricorrere con la certezza di essere esauditi ma è anche un modello di quella fede che tutti siamo chiamati a vivere. Alle nozze di Cana Maria interviene e scompare. Lascia al Figlio tutta la gloria, come appare nel versetto conclusivo del racconto evangelico (Gv 2,11). Lungo gli anni della vita, Maria vive fedelmente quello che ha proclamato nel Magnificat: «Ha guardato l’umiltà della sua serva». 

Don Enrico ha camminato per la stessa via. La sfida della carità richiede fede e coraggio, buona volontà, tenacia e tanta forza per affrontare le avversità senza scoraggiarsi. Ma tutto è inutile se manca il condimento dell’umiltà. Il Servo di Dio non ha mai cercato la gloria e neppure quel consenso di cui oggi tanti sono affamati. Lo rileva un particolare non proprio marginale. Nel 1954 gli operai della MCM, industria tessile angrese che allora dava lavoro a più di mille persone, ricevettero un premio nazionale per aver deciso di rinunciare ad un pasto mensile e devolvere alla nascente Città dei ragazzi la somma equivalente. In quell’occasione don Enrico li ringraziò pubblicamente, mettendo in evidenza la «grandezza del sacrificio» e soprattutto di averlo compiuto «nel silenzio, nel nascondimento più umile che è la più alta dote della carità cristiana». 

Quello che dice agli operai è lo specchio della sua anima, è lo stile della sua vita interiore. Lui non cercava gli onori, si caricava di tutti gli oneri. Non desiderava avere riconoscimenti, a lui bastava vedere che i suoi ragazzi crescevano felici in un ambiente che dava loro tutto l’affetto di cui avevano bisogno per diventare cittadini onesti e cristiani fedeli. 

Dietro le quinte

A Cana di Galilea la Madonna si accorge del disagio e interviene con decisione ma senza farsi notare. Resta dietro le quinte. È quello che certamente ha fatto anche nella vita di don Enrico, lo ha sollecitato a prendersi cura dei ragazzi, restando nell’ombra. Gli ha insegnato ad avere fiducia nella potenza di Cristo che sa trasformare nel vino della carità i desideri di bene. E gli ha permesso di fare del suo sacerdozio una fonte di gioia per tanti.

don Silvio Longobardi

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