Maturità 2024: ritorna l’esame che è un rito di passaggio all’età adulta, atteso (e temuto) da tutti gli studenti. È articolato sul modello dell’anno scorso: due prove scritte a carattere nazionale e un colloquio; commissioni composte da commissari interni ed esterni e presiedute da un presidente esterno.
Il 19 giugno, oltre 500mila studenti saranno impegnati nello svolgimento della prima prova, il compito di italiano. Il giorno successivo la seconda prova, che ha per oggetto le materie d’indirizzo. Il lunedì successivo alle prove scritte – quindi il 24 giugno – prenderanno il via i colloqui, il cui inizio per alcuni maturandi slitterà di qualche giorno a causa dei ballottaggi delle elezioni comunali.
Ha ancora senso, così come è formulato, questo esame? Ed è un rito di passaggio o una prova di valutazione, considerando però che la percentuale dei promossi è sempre altissima? Ne parliamo con un educatore attento e sensibile, Eraldo Affinati, scrittore e insegnante romano, fondatore con la moglie Anna Luce Lenzi nel 2008 della scuola Penny Wirton (oggi oltre 60 in tutta Italia) per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati.
«Gli esami di Stato che si tengono a conclusione del ciclo di studi delle scuole medie superiori – esordisce – sembrano a molti adulti un reperto del passato, ma non dovremmo mai dimenticare che per i giovani pronti a sostenerli rappresentano la prima vera prova cui si sottopongono. In realtà la vera selezione è già avvenuta negli anni precedenti, fino al momento dell’ammissione, che ancora registra qualche mancata presenza. Gli scritti e gli orali, con tutte le loro ritualità, assomigliano a pure formalità, vista la risibile percentuale dei bocciati; tuttavia, continuano ad avere una grande importanza simbolica, anche per il punteggio ottenuto».
Professore, lo scenario culturale è tuttavia fluido e in continua evoluzione…
«È la rivoluzione digitale ad averlo cambiato, modificando il rapporto con la realtà e con sé stessi, non soltanto dei giovani. Pensiamo alle diverse modalità di accesso al sapere oggi disponibili e alla conseguente necessità di stabilire gerarchie di valore in grado di orientarci nel web. Oppure al senso da attribuire all’esperienza, non accontentandoci di quella virtuale. O ancora ai sistemi cognitivi che entrano in gioco nella lettura spezzettata. Concentrazione, verifica delle fonti, applicazione, esercizio, analisi, apprendimento: tutto ciò oggi viene filtrato dalle più recenti tecnologie. Il sistema dell’esame è invece figlio dei criteri ermeneutici novecenteschi. È come se i ragazzi, nel momento in cui affrontano l’esame di maturità avessero a che fare con un meccanismo obsoleto. Però hanno l’abitudine a sentire questo scarto perché ci sono cresciuti; anzi alcuni di loro avvertono il fascino della civiltà appena trascorsa e vorrebbero recuperarla. Il libro di carta, ad esempio, non è scomparso ma continua a recitare, anche agli occhi delle nuove leve, il suo ruolo essenziale».
Lei incontra alla Penny Wirton molti liceali impegnati nell’insegnamento della lingua italiana ai loro coetanei immigrati. Qual è il loro volto?
«È proprio dall’osservazione di questi adolescenti impegnati a svolgere i Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento) che si alimenta la mia speranza. Studenti formati sui piccoli e grandi schermi, come tutti i loro coetanei, i quali sperimentano alla Penny Wirton una speciale relazione umana. Conoscono ragazzi della loro età, che non avrebbero mai incontrato se non avessero avuto la possibilità che noi gli abbiamo dato, provenienti da Africa, Oriente, Paesi slavi, Sudamerica. Per insegnare l’italiano si servono del nostro manuale, della ludo-didattica di cui disponiamo, dei quaderni e del cellulare. Passano senza soluzione di continuità dalla penna al traduttore automatico, incarnando perfettamente il connubio fra vecchio e nuovo mondo».
Un biennio di “guerra” immateriale – il Covid – con oltre 120mila vittime e un pesantissimo carico di macerie sociali e psicologiche; oggi, da due anni, un duplice, spaventoso conflitto, questa volta reale, in Ucraina e in Israele. Come lo vivono i ragazzi e come far sì che questa esperienza rappresenti un’occasione di crescita umana?
«In apparenza sembrano rimuovere i conflitti, ma molto spesso li vivono sottotraccia. Me ne rendo conto quando li metto a fianco dei profughi ucraini, oppure nel momento in cui certi minorenni africani raccontano le loro peripezie prima di arrivare a Lampedusa. Quest’anno, l’ultimo giorno di scuola alla Penny Wirton abbiamo fatto una piccola festa: per me il momento più bello è stato veder danzare insieme alcune ragazze dei nostri licei con egiziani neoarrivati. Questi ultimi, di solito scatenati, parevano quasi intimoriti di fronte alle studentesse, forse perché non abituati alla promiscuità fra maschi e femmine. Poi sono arrivate delle signore gambiane ed etiopiche che si sono unite al ballo con grande disinvoltura. E tutto è diventato ancora più naturale e semplice, vista anche la presenza dei bambini. Vedendo questo gruppo ho pensato: “Ecco un modo per esorcizzare, nel nostro piccolo, i venti di guerra”. Secondo un sondaggio di Skuola.net, il 51% di circa mille maturandi preferirebbe affrontare il secondo dopoguerra e la seconda metà del Novecento piuttosto che parlare di preistoria e dinosauri. Di recente, anche il ministro dell’Istruzione Valditara aveva sollevato la questione di una possibile revisione dei programmi».
Ci vuole il giusto equilibrio…
«I programmi andrebbero rinnovati con giudizio. Dare più spazio al Novecento e oltre si può fare senza ridurre lo studio della storia antica, a mio avviso fondamentale. Ci sarebbe un grande lavoro da compiere sui libri di testo che dovrebbero essere molto più sintetici ed efficaci. Meno erudizione e più racconto storico; meno apparati e più sostanza. La scuola è il motore di trasmissione fra passato e futuro, oltre che uno strumento di formazione del nostro sguardo retrospettivo. Non dovremmo trattarla alla maniera di un polveroso contenitore da trasmettere da una generazione all’altra, bensì come un propulsore vitale, anche perché ogni volta che uno stesso argomento viene affrontato da un giovane, la tradizione si ricrea».
Il tema di italiano, comunque lo si voglia considerare, continua a rimanere per il suo valore simbolico la prova principe. Ogni anno si apre, a posteriori, il dibattito sulle tracce proposte dal Ministero. Secondo lei, che caratteristiche dovrebbero avere?
«Non sono importanti le tracce, ma il modo in cui si affrontano. In questa chiave l’intelligenza artificiale non può essere risolutiva. La stessa cosa potremmo dire per la letteratura: il tema conta poco. Vale molto di più lo stile, la voce unica dell’autore. Quanti resoconti abbiamo avuto sulla nostra tragica ritirata di Russia nella Seconda guerra mondiale? Tantissimi. E perché allora soltanto “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern raggiunge, insieme a pochi altri testi, la qualità di capolavoro? Ogni scolaro che affronta l’esame di Stato è chiamato a dare, nella prova di italiano, il suo contributo originale».
La scrittura resta, ancora oggi, lo strumento espressivo più importante per valutare la maturità di un giovane. Infine, il colloquio, sempre vissuto dai ragazzi con apprensione, nel timore di non riuscire a dare, per l’emozione, il meglio di sé. Gli insegnanti sono più chiamati a giudicare o ad ascoltare e incoraggiare?
«Lo sguardo dell’insegnante nei confronti dell’alunno impegnato a sostenere l’esame dovrebbe essere sempre amorevole e comprensivo, il che non significa meno esigente e rigoroso. L’I care di don Lorenzo Milani non voleva dire: puoi fare ciò che vuoi, rinunciando agli obiettivi da raggiungere. Significava piuttosto: tu mi interessi nel profondo, come persona, e quindi io cercherò di portarti fino al traguardo, attraversando insieme a te i percorsi che abbiamo stabilito.
Dovrò sempre considerare la tua stazione di partenza, premiando il movimento che hai fatto registrare, prima ancora del traguardo eventualmente raggiunto. Nel caso in cui avrai mancato il risultato, io e i miei colleghi dovremo assumerci, insieme a te, la responsabilità del fallimento. Se ci sentiremo chiamati in causa quando le cose sono andate male, allora noi docenti avremo davvero conosciuto il senso autentico del nostro lavoro».
Giovanna Pasqualin Traversa/Sir
- Solidarietà per sostenere l’imprenditoria femminile in Africa
- Adolescenti sempre più miopi. La ricerca della Sun Yat-Sen University
- Medio Oriente: il 6 e 7 ottobre preghiera per la pace nel mondo
- Ritorno alla ferialità: una malinconia condivisa
- Madonna del Rosario: domenica la Supplica a Pompei