Chi ha fede s’incammina senza indugio

Don Enrico Smaldone non aveva solo fede, ma anche la virtù della perseveranza. Sapeva che, se Dio mette un’idea nel cuore, non farà mancare l’essenziale
Anno 1955, al centro della foto don Enrico Smaldone, alla sua destra Federico Russo, a sinistra la moglie Adriana, in visita alla Città dei Ragazzi

Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», e se quello dall’interno gli risponde: «Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani», vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. (Luca 11, 5-7)

Il Vangelo usa l’immagine dell’amicizia per insegnarci a pregare con fiducia. Se un amico non può fare a meno di rispondere alla richiesta insistente, quanto più il Padre celeste è pronto ad accogliere la nostra supplica. Quando ha compreso che il Signore gli affidava quei ragazzi che vivevano senza arte né parte, senza famiglia e senza Vangelo, don Enrico ha cominciato a bussare con insistenza alla porta degli amici. E non si è arreso fin quando non ha ottenuto il pane di cui aveva bisogno per sfamare i suoi giovani amici. 

Qui sorge

Rileggiamo gli eventi accaduti nelle prime settimane del 1949. Agli inizi di gennaio don Enrico vede un film che accende o, ad essere precisi, conferma il desiderio di fare qualcosa per i ragazzi abbandonati. Un progetto che da tempo portava nel cuore ma, fino a quel momento, era rimasto confinato nel limbo delle buone intenzioni. La visione del film ha la forza di una chiamata divina. Si mette subito all’opera, trova il terreno. Un mese dopo, il 13 febbraio 1949, un corteo in festa arriva nel fondo di 5.000 metri quadrati donato dal dott. Giuseppe Adinolfi e fissa un cartello con la scritta “Qui sorge La Città dei Ragazzi”. Il verbo dice tutta la sua determinazione: non fa riferimento ad un futuro indeterminato ma ad un presente certo. Ai suoi occhi il progetto è già realtà. Eppure, in quel momento non aveva una lira. 

Don Enrico non ha mezzi per rispondere al disagio dei ragazzi ma ha tanta fede. E chi ha fede ha anche una grande fiducia nella Provvidenza. Povero di mezzi ma ricco di Dio. È questa la ragione che gli permette di accettare la sfida della carità pur sapendo di non avere risorse e di non poter contare sulla disponibilità della cittadinanza. Non è un incosciente che trascina gli altri in un progetto illusorio ma un credente che consegna sogni e insegna a fidarsi di Dio. Se vissuta autenticamente, la fede comporta sempre un pizzico di follia. La carità è solo un frammento di quella rivoluzione che troverà compimento quando, secondo la promessa, vedremo «cieli nuovi e una terra nuova nei quali abita la giustizia» (2Pt 3,13). 

Don Enrico parte senza indugio: sa che, se Dio mette un’idea nel cuore, non farà mancare l’essenziale. Appartiene alla categoria dei santi, quelli che non mettono le mani in tasca ma sul cuore. Non si preoccupano di contare i soldi ma di misurare e coltivare la fede. Dio provvede! È questa la regola dei santi. Pur sapendo di non avere niente, il prete angrese è partito con decisione: ai suoi occhi il terreno donato dalla Provvidenza era un segno chiaro che Dio voleva questo progetto. E questo bastava per mettersi subito all’opera. 

L’angelo della speranza 

«Chiedete e vi sarà dato» (Lc 11,9), dice Gesù. In realtà l’uomo non vuole affatto chiedere, non vuole trovarsi nella condizione di dover chiedere qualcosa. Don Enrico è mosso dalla fede e dalla carità, non teme di presentarsi come un mendicante. Bussa a tante porte. Si reca a Roma, spera di commuovere e coinvolgere personaggi della politica che possono aiutarlo ad accedere ai fondi stanziati per la ricostruzione. Quelle porte rimangono chiuse. 

La Provvidenza non viene meno. Il salmista assicura che il buon Dio manda i suoi angeli per custodirci nel cammino della vita (Sal 91,11). Uno di questi angeli, che diventerà il più importante benefattore dell’opera, si chiama Federico Russo, un amico che ha conosciuto sui banchi di scuola, poi trasferitosi negli Stati Uniti. È l’angelo della speranza.

Inizia una corposa corrispondenza epistolare. In una lettera del 1950 gli scrive così: «Coraggio e avanti sempre! Nessuna sosta sul nostro cammino che è tanto grande ma pur tanto penoso! Tu non ti separerai più da me ed insieme feconderemo di lacrime e di una stilla del nostro sangue quel cammino che farà di noi dei giganti davanti a Dio. Così si nobilita la vita. L’umanità ha bisogno di anime generose che sanno vivere il tormento di un ideale grande che deve far brillare sulle catastrofi morali la luce della Redenzione, sulle miserie sociali la luce del bene e della prosperità. Avanti allora, con indomita tenacia. Ci conquida sempre più fortemente la sublime meta che ci siamo prefissi. Quando stanchi ed affaticati avremo raggiunto questa meta saremo contenti di noi stessi, la società ne sarà riconoscente, Iddio ci conserverà il meritato premio». 

Non aveva solo la fede ma anche la virtù della perseveranza. Ha lottato con tutte le sue forze perché sapeva che non si trattava solo di realizzare un suo sogno ma di rispondere al progetto di Dio. In una delle lettere inviate all’amico Federico Russo, per consolarlo di alcune delusioni, scrive così: «Avanti, avanti sempre con tutta l’anima e con tutto il cuore. Nessuna difficoltà deve fermarci nella nostra forzata marcia verso la nostra radiosa meta. Se Dio ci concederà un giorno di riposo, dopo le nostre realizzazioni, godremo insieme l’intima gioia di aver compito la più grande opera di bene».

Con gli occhi del Padre

Don Enrico è un sacerdote, un uomo che ha ricevuto il cuore di Dio e agisce con la forza di Dio. Un uomo che guarda la vita con gli occhi appassionati del Padre, quelli di chi ama e perciò non teme di intervenire. Sospinto dallo Spirito si è messo all’opera senza contare i passi e senza paura di faticare invano. 

Silvio Longobardi

Questa rubrica ha l’obiettivo di mettere in luce la spiritualità del Servo di Dio don Enrico Smaldone, sacerdote della diocesi di Nocera Inferiore – Sarno (1914-1967), fondatore della Città dei Ragazzi, una casa che accoglieva ragazzi soli e abbandonati.

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