Negli ultimi anni, i mezzi di informazione riportano con crescente frequenza episodi di violenza estrema, spesso agiti con modalità apparentemente inspiegabili. In molti casi, le vittime sono persone sconosciute all’aggressore, colpite per motivi futili o del tutto assenti; in altri, il legame tra autore e vittima è stretto, familiare o affettivo, e la brutalità dell’azione risulta ancora più destabilizzante.
A colpire non è solo la natura del gesto, ma anche le caratteristiche dei protagonisti: la giovane età, il grado di prossimità, la banalità del contesto o, al contrario, la premeditazione con cui è stato organizzato il crimine. Se è possibile abituarsi al piacere, la violenza, quando si manifesta così vicina, non lascia indifferenti.
L’opinione pubblica tende sempre più a identificarsi non solo con le vittime, ma anche – in maniera inquietante – con i familiari degli aggressori, riconoscendo una dimensione di prossimità che rende difficile tracciare confini netti tra “noi” e “loro”. Quando un omicidio è riconducibile a dinamiche criminali, legate ad ambienti di spaccio o regolamenti di conti, il cittadino può sentirsi estraneo: «Non mi riguarda». Tuttavia, dinanzi a fatti di sangue che coinvolgono soggetti ordinari – studenti, lavoratori, genitori – la rassicurazione svanisce, lasciando spazio a interrogativi più profondi.
La forza di questi eventi sta nella loro capacità di toccare corde esistenziali: il timore che a essere colpiti possiamo essere noi o persone a noi care, o addirittura la scoperta che un individuo “insospettabile” del nostro ambiente possa commettere un atto irreparabile. Le reazioni emotive – angoscia, smarrimento, rabbia – sono comprensibili, ma rischiano di restare sterili se non si accompagnano a una riflessione più ampia. È necessario superare letture semplicistiche, che isolano singoli fattori e impediscono un reale coinvolgimento critico.
Tra le spiegazioni frequentemente adottate figura quella della malattia mentale.
Sebbene alcuni autori di reati efferati soffrano di patologie psichiatriche, questa lettura non può essere generalizzata né considerata esaustiva.
Anche nei casi in cui vi sia una diagnosi, restano aperte questioni centrali: il disagio era manifesto? Vi erano segnali trascurati? Perché il malessere si è tradotto in un’esplosione di violenza, piuttosto che in altre modalità espressive? La maggior parte delle persone affette da disturbi mentali non è violenta. Un secondo elemento spesso enfatizzato riguarda la provenienza culturale e religiosa dell’aggressore. In realtà, i dati e l’osservazione empirica mostrano che episodi di violenza estrema sono compiuti da soggetti di ogni origine, credo e condizione socio-economica.
Nei casi di violenza emergono spesso dinamiche ricorrenti, che approfondiremo con attenzione nel prossimo numero.
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