Sergio Di Fenza racconta i suoi cinque intensi anni trascorsi al reparto di endoscopia dell’ospedale di Sarno. Il responsabile Goi Endoscopia dell’ospedale “Martiri del Villa Malta” di Sarno ha vissuto sulla propria pelle la fatica e la dedizione di un mestiere che non ammette pause.
Tra turni massacranti e reperibilità continue, si è trovato a fronteggiare urgenze spesso drammatiche. Nonostante tutto, la passione per la medicina e la voglia di salvare vite hanno reso ogni sacrificio un tassello imprescindibile di una storia di resilienza e dedizione.
Un professionista allergico, forse, alla burocrazia e alle scartoffie, ma pronto a dar tutto se stesso in prima linea.
In oltre trent’anni di carriera ha salvato molte vite. Ha visto la fragilità umana da vicino, ogni giorno. Si può ancora fare il medico per passione?
«La passione non è anacronistica. È solo a volte stanca. Oggi è un lusso, e chi la conserva viene guardato come un ingenuo o come un potenziale burnout. Fare il medico per passione è ancora possibile, ma bisogna essere pronti a difenderla ogni giorno: dalla burocrazia, dalla stanchezza, dall’ingratitudine, e soprattutto da un cinismo che rischia di insinuarsi dentro e piano piano di svuotarti».
Dopo tanti anni, ci riesce ancora?
«A volte sì. A volte no. La passione è come l’intestino: se non la nutri bene, si infiamma. E in questi anni, glielo assicuro, è stata una dieta povera. Ho passato molte ore in reperibilità, rinunciando al tempo libero, alle uscite con la famiglia o gli amici. Ma anche se la stanchezza ti consuma, la felicità di salvare una vita ti dà una forza che nessuno può toglierti. Quando però non è stato possibile, quando la malattia ha avuto la meglio, ho lasciato il reparto con un’enorme amarezza nel cuore, un peso che non si dimentica».
Ha mai pensato di mollare?
«Più volte di quanto si possa immaginare. Poi ripenso a una promessa che feci a me stesso da bambino, in un tema di scuola: “Voglio diventare medico per salvare vite”. Quel sogno, quella promessa, mi ha tenuto saldo anche nei momenti più difficili. E restavo. Per dignità, per testardaggine. A volte solo per non tradirmi».
Cosa pensa del futuro della medicina?
«Sarà sempre più tecnologica, ma sempre meno umana. Le macchine capiranno le nostre malattie, ma non i nostri dolori. E noi medici saremo lì, tra uno scanner e un algoritmo, a farci domande che nessuno ci paga per fare. Ma la medicina è un mestiere che non si può fare solo con la testa. Richiede stomaco. Richiede cuore».
Cosa direbbe oggi a un giovane medico che inizia?
«Preparati a combattere. La vera battaglia è con te stesso. Con la tentazione di diventare un tecnico senz’anima. Fai il medico per passione, ma anche per disciplina. Perché non tutti i giorni sentirai di fare la differenza. E in quei giorni, l’unica cosa che ti terrà in piedi sarà ricordare perché hai iniziato. E oggi, restare umani è forse il gesto più radicale che un medico possa fare».
La passione, quindi, resiste?
«Sì, ma non in prima linea. È diventata clandestina. Vive sotto il camice, tra un referto e una battuta stanca. Ogni tanto riaffiora, nei piccoli gesti, nei pazienti che ti stringono la mano o ti sorridono in silenzio. E finché ci sarà qualcuno disposto a sentire quella voce interiore, io continuerò. Con lo stomaco in subbuglio, certo. Ma il cuore – almeno a tratti – ancora intero».
Suo figlio sta per laurearsi in medicina. Cosa gli direbbe da padre e da medico?
«Non avere paura di essere diverso. Non confondere il rispetto con l’obbedienza cieca, né il protocollo con la coscienza. Curare non è mai solo un atto tecnico, ma prima di tutto un atto umano. Gli direi anche di non preoccuparsi troppo delle critiche. Perché se sei serio, se lavori con passione, se non ti limiti a timbrare il cartellino, prima o poi qualcuno ti dirà che “sei una talpa da laboratorio”, che “ti prendi troppo sul serio”, che “non sei abbastanza furbo”. Ma non importa. Perché chi lavora con passione non si stanca davvero mai. E anche nei giorni peggiori, trova un senso. E in quel senso, trova la felicità. Infine, gli direi una cosa semplice: non diventare come me, diventa meglio di me. Se ho resistito fino a oggi è solo per lasciarti un esempio: non perfetto, ma vero. Un medico che ha vissuto ogni giorno con le mani stanche, ma con il cuore sveglio».
Una vita intera spesa in corsia quella di Sergio Di Fenza. Come la compendierebbe?
«Con le parole di Confucio: “Scegli un lavoro che ami, e non dovrai lavorare neppure un giorno in vita tua”».
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