Un ricordo nitido che proviene dalla mia infanzia, mai dimenticato, e dal paese dove ho imparato ad attendere e nutrire il futuro. Era malato il parroco; da un po’ di tempo non lo vedevamo più in parrocchia, sempre elegante con la sua talare e lo stile sacerdotale. Le suore e altre persone della comunità pregavano e invitavano a pregare, noi bambini e ragazzi.
Poi capimmo che non era niente di serio, ma era costretto a casa e a letto per un po’ di tempo. Ci venne l’idea di andarlo a trovare; ma si può fare, è permesso, e come? Ieri, nel senso positivo, c’era una certa distanza dai superiori, ma anche dai genitori ed insegnanti.
Un gruppo di noi, i ministranti più fedeli, coltivò l’idea della visita come un fiore, una speranza da far crescere, ma ci serviva un aggancio, un tramite. Cercando lo trovammo tra i signori della parrocchia e ci fu dato l’appuntamento.
Andammo a trovare il parroco a casa sua; certo non tutti, ma una delegazione, ed io fui scelto tra questi. Secondo problema per noi ragazzi: andare con le mani in mano, o che cosa portare ad un parroco? Di nuovo consultazione attraverso i più vicini, ed ecco la soluzione: un cestino di frutta fresca. Raccogliemmo dei soldi tra di noi; ognuno quel po’ che poteva e il regalo, infiocchettato dalle suore, era pronto per essere consegnato. Anche noi eravamo pronti per l’appuntamento, entusiasti, con il cuore in gola e trafelati. Era a letto e ci accolse con un grande sorriso e un abbraccio degli occhi.
Spaesati, appoggiammo il cestino sul letto, il suo commento: «Grazie, perché se nella vita ci sono i fiori, ci saranno anche i frutti, e sempre freschi». Poi ci invitò a recitare un Ave Maria, ci benedisse, ci esortò ad essere buoni dandoci appuntamento in chiesa. Era il mese di maggio, e così dopo pochi giorni riapparve, ieratico come sempre, e sentimmo il profumo della speranza e della vita che riparte dopo ogni pausa e dopo ogni sosta.
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